Una storia kafkiana desta forti sospetti di conflitti d’interesse
Circa 3 anni fa una mamma marchigiana abbandonata dalla famiglia d’origine e dal proprio compagno si è ritrovata in mezzo alla strada con un bambino piccolo. Sono intervenuti i Carabinieri e i Servizi Sociali. In prima battuta, la mamma è stata felice dell’aiuto ricevuto, accettando la collocazione in una comunità mamma-bambino. Ignorava che non sarebbe stato possibile possibile garantire il diritto del bambino alla vita familiare, e che la sua disperazione sarebbe aumentata. Ma soprattutto non poteva immaginare che questa disperazione – normalissima reazione umana in tali circostanze – sarebbe stata interpretata come malattia mentale e usata per portarle via il figlio.
“La cosa non ci sorprende” – commenta il portavoce del CCDU (Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani – un ente di denuncia degli abusi psichiatrici) – “sono sempre più frequenti i casi in cui un normalissimo sentimento umano viene etichettato come patologico da questi sedicenti esperti. I cosiddetti disturbi mentali non sono altro che un elenco di comportamenti e di pensieri: riclassificarli come malattie comporta margini di arbitrarietà e soggettività così ampi da esulare completamente dall’ambito scientifico.”
Ma tant’è: pur in assenza di maltrattamenti o altri gravi abusi nei confronti del bambino, questi presunti disturbi mentali sono sufficienti per giustificare l’allontanamento (verrebbe quasi da chiamarlo “rapimento”) del bambino e il suo affidamento etero-familiare. Alla mamma veniva concesso di vedere il bambino in incontri protetti di poche ore al mese senza nessuna intimità – verrebbe da definirlo un regime da carcere duro.
La mamma, disperata, pubblica un video su Internet per lamentarsi del trattamento ricevuto – una reazione magari fuori luogo ma, date le circostanze, umanamente comprensibile. Invece no: il comportamento della mamma sarebbe pericolosissimo in quanto lesivo della privacy del bimbo e così, nella migliore tradizione psichiatrica, si ricorre alla coercizione e al ricatto, sospendendo gli incontri. Il bambino sparisce e, da quel momento in poi, la mamma non sapeva neppure dove e con chi fosse.
Il Tribunale, interpellato dall’avvocato Francesco Miraglia, difensore della mamma, ha ravvisato un’incompatibilità tra la mamma e i Servizi Sociali, e nel settembre del 2017 (sic) ha incaricato un altro Servizio Sociale di intraprendere il percorso di genitorialità con la mamma. Il nuovo servizio sociale, però, non sa dove si trovi il bambino, e solo pochi giorni fa (un anno e due mesi dopo) l’avvocato è riuscito a scoprirlo.
L’assurdità di questa storia farebbe impallidire Franz Kafka, ma forse c’è una spiegazione a tutto questo: un bambino ospite di una casa-famiglia rende a quest’ultima diverse centinaia di euro al giorno, quando alla mamma sarebbe bastato molto meno per uscire dalla sua condizione iniziale di difficoltà, e c’è chi sospetta addirittura che si tratti di un caso di adozione mascherata.