Iniziata la carriera musicale nel 1972, Alan Sorrenti si è continuamente, reinventato, dimostrando flessibilità e curiosità musicale cantando in inglese, spagnolo, napoletano, tedesco ed italiano. Lo abbiamo incontrato il occasione della festa dell’amicizia organizzata a Dillingen (Saar) dal comitato Dillingen Sutera lo scorso settembre
Hai vissuto in Italia, ma anche negli Stati Uniti. Come mai il grande sogno americano?
Mi recai negli Stati Uniti alla ricerca del ritmo perché, in fondo, ho un’anima pop. Lo dimostrano anche i miei brani Figli delle stelle e tu sei l’unica donna per me. Questo ultimo vinse anche il Festivalbar. Anche “Non so che direi”, dell’album di “Notte” aveva un simile filo guida. Mi rincresce un po’, però, che gli album non siano andati bene. È come se la gente non si preoccupasse di ascoltare con cura l’album, e si fermasse ai singoli di successo. Eppure, nella trilogia ci avevo messo tanto lavoro, e, specialmente nell’ultimo che rappresentava, per me la maturità.
Spirito da ricercatore?
Sì, è la mia natura. Ho sperimentato varie cose. Credo di essere una figura un po’ anomala. In genere un artista trova il suo stile ci rimane. Io, invece, no, in continua ricerca.
Esigenza o voglia di sperimentazione?
Sicuramente anche un’esigenza. Il tutto risale a come ho iniziato a cantare. È stato un cantautore californiano, Tim Buckley (padre di Jeff Buckley), ad incanalarmi, in un certo senso, sulla mia strada. Questa scoperta è stata entusiasmante perché ha fatto nascere in me l’esigenza di trovare ed estrapolare la mia voce. Quello che mi affascinava maggiormente di questo artista era il fatto che lui cambiasse in ogni album passando dal jazz alla musica sperimentale come se niente fosse. Probabilmente questo instillò, anche in me, la voglia di non ripetermi. Purtroppo, anche se mi sarebbe piaciuto tanto, non ho avuto modo di conoscerlo personalmente, perché Buckley morì.
Hai cantato brani in diverse lingue. Come è, per te, cantare in altre lingue?
L’inglese è una lingua bellissima per questo tipo di musica, ma non è totalmente la tua. Quello che si riesce a fare con la lingua nativa, ossia trasformare certe parole, darle il sapore giusto non è tanto semplice con una seconda lingua. Ho avuto anche l’esperienza di fare un album in spagnolo ma, quando traduci in una lingua che non è tua, diventa per me difficile ricreare la stessa esperienza che creo quando canto in italiano. Tra inglese e spagnolo, forse con l’inglese mi risulta più facile, ma non al livello che vorrei.
Come è, invece, ascoltare le versioni tradotte delle tue canzoni?
Questi sono stati casi fortunati per le versioni delle mie canzoni, cantate in tedesco da altri. Esiste anche una mia versione cantata in tedesco che, a dire degli altri, sembra piuttosto un americano che parla tedesco. È chiaro che se vuoi avere possibilità in un paese dovresti cantare nella lingua propria del paese per raggiungere più pubblico possibile. La versione tedesca, del 1979, di Tu sei l’unica donna per me, Alles was ich brauch bist du di Hoffmann & Hoffmann, oltre ad essere, secondo me, un bel prodotto musicale, è arrivato primo in classifica e mi ha reso molto presente sul mercato tedesco. Sentirla cantata da loro, ho visto che funzionava come brano, mentre la mia versione non era fluida. Probabilmente, dato che non solo ho interpretato, ma scritto la canzone, avevo delle esigenze diverse da un puro interprete.