Globalizzazione, migrazione e sfruttamento del lavoro nero
Di globalizzazione si parla spesso e se ne parla male. Ma la globalizzazione, in sé, non è cattiva. Può esserlo, se se ne fa un uso cattivo. Ma può essere anche buona, se l’uso che se ne fa è buono. Buona o cattiva che sia, essa è inevitabile come le stagioni, il vento o le maree. Gli uomini ne fanno parte. Sono loro che possono essere buoni o cattivi.
70 anni fa di globalizzazione non si parlava. Oggi parlarne è all’ordine del giorno. Spesso la si lega alla crisi dell’economia, alla perdita di posti di lavoro, alla chiusura di fabbriche. Le fabbriche agli imprenditori conviene tenerle altrove, nei paesi in via di sviluppo, dove la manodopera è meno cara. Per chi vive in questi paesi la globalizzazione è tutt’altro che negativa, è una manna caduta dal cielo. La Cina è diventata la fabbrica del mondo e gran parte dei cinesi vive oggi in una condizione di benessere impensabile solo due o tre decenni fa. Ma ci sono paesi che di sviluppo non ne hanno visto nemmeno l’ombra. Molti paesi dell’Africa, per esempio. La globalizzazione è dunque localmente più o meno forte, più o meno presente, più o meno veloce. Paradossalmente, la globalizzazione non è globale. Non ha raggiunto ugualmente tutti gli angoli del pianeta. Costretti dalla povertà sono stati gli uomini che hanno dovuto spostarsi. A ciò ha contribuito anche il cambiamento climatico, fenomeno globale anch’esso, che tuttavia ha colpito alcuni continenti più di altri. Almeno fino ad oggi.
Migrazione e globalizzazione sono due fenomeni legati a doppio filo. Una alimenta l’altra e viceversa. E a volte il legame è così stretto da creare cortocircuiti. Un esempio emblematico è rappresentato dalla raccolta di prodotti agricoli. L’Italia è tra i maggiori produttori mondiali di pomodoro. La raccolta avviene soprattutto nei campi del sud ed è affidata a lavoratori stagionali, in gran parte migranti neri africani. I pomodori italiani sono apprezzati per la loro qualità e vengono esportati in tutto il mondo, compresa l’Africa.
In Ghana alcuni anni fa la produzione di pomodori era fiorente. Oggi in Ghana si importano i pomodori italiani perché costano meno e costano meno perché la manodopera, in Italia, costa poco. Molti braccianti agricoli ghanesi che hanno perso il lavoro hanno deciso di emigrare. Hanno attraversato il deserto e il mare e sono arrivati nei campi di raccolta italiani. Qui hanno trovato il lavoro di cui erano stati privati in patria. I pomodori che raccolgono diventano i barattoli di salsa che finisce sulle tavole dei loro famigliari, in Ghana. Ma questo, forse, loro nemmeno lo sanno.
Insieme ai Ghanesi migliaia di neri africani del Senegal, Cameroon, Niger, Mali e via dicendo, condividono lo stesso destino. Quando sono arrivati in Italia speravano di trovare l’eldorado, benessere, diritti, lavoro. Invece hanno trovato condizioni peggiori di quelle che avevano lasciato nei loro paesi. Uno di loro era Soumaila Sacko.
Originario del Mali, in Italia era arrivato nel 2010, quando aveva 21 anni. Aveva trovato lavoro in Calabria, a Rosarno cittadina nota alle cronache per essere stata sede di violenti scontri tra cittadini e migranti. Gli scontri, avvenuti tra il 7 e il 9 gennaio 2010, furono causati dal ferimento di due immigrati africani da parte di sconosciuti con una carabina ad aria compressa. Non sappiamo se Soumaila Sacko avesse preso parte agli scontri, ma sappiamo che dopo quella rivolta si era impegnato per una migliore integrazione dei migranti, per ottenere condizioni migliori per i braccianti stagionali. Aveva ottenuto il permesso di soggiorno ed era diventato sindacalista. Il 2 giugno scorso Soumaila Sacko è stato ucciso da un colpo di fucile sparato da uno sconosciuto, bianco, da un centinaio di metri di distanza. E’ stato colpito mentre insieme ad altri due migranti raccoglieva lamiere tra le rovine di una fabbrica abbandonata. Le lamiere servivano per coprire la baracca in cui vivevano. La fabbrica era una vecchia fornace nel comune di San Calogero, provincia di Vibo Valentia, a pochi chilometri dalla loro baraccopoli. Produceva mattoni, ma era abbandonata da anni. La procura di Vibo Valentia ne aveva disposto il sequestro perché nel sottosuolo sarebbero state sotterrate migliaia di tonnellate di rifiuti pericolosi provenienti dalle centrali Enel a carbone di Brindisi, Siracusa e Palermo. Rifiuti contenenti nichel, vanadio, selenio, cromo, stagno, solfuri, fluoruri, cloruro. Elementi velenosi non solo per la terra, ma anche per l’aria di una delle zone più belle d’Italia. A pochi chilometri c’è il mare di Tropea.
“Italiani brava gente” è il titolo di un vecchio film ma anche una citazione usata di frequente: a molti italiani piace riconoscersi in quelle tre parole. A Roma all’EUR sul Palazzo della Civiltà Italiana si legge: “Un popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, navigatori, trasmigratori”. Nei libri di storia questo siamo stati. Oggi lo siamo certamente di meno.
Migrazione e globalizzazione sono due fenomeni legati a doppio filo. Una alimenta l’altra e viceversa. E a volte il legame è così stretto da creare cortocircuiti. Un esempio emblematico è rappresentato dalla raccolta di prodotti agricoli. L’Italia è tra i maggiori produttori mondiali di pomodoro. La raccolta avviene soprattutto nei campi del sud ed è affidata a lavoratori stagionali, in gran parte migranti neri africani. I pomodori italiani sono apprezzati per la loro qualità e vengono esportati in tutto il mondo, compresa l’Africa.
In Ghana alcuni anni fa la produzione di pomodori era fiorente. Oggi in Ghana si importano i pomodori italiani perché costano meno e costano meno perché la manodopera, in Italia, costa poco. Molti braccianti agricoli ghanesi che hanno perso il lavoro hanno deciso di emigrare. Hanno attraversato il deserto e il mare e sono arrivati nei campi di raccolta italiani. Qui hanno trovato il lavoro di cui erano stati privati in patria. I pomodori che raccolgono diventano i barattoli di salsa che finisce sulle tavole dei loro famigliari, in Ghana. Ma questo, forse, loro nemmeno lo sanno.
Insieme ai Ghanesi migliaia di neri africani del Senegal, Cameroon, Niger, Mali e via dicendo, condividono lo stesso destino. Quando sono arrivati in Italia speravano di trovare l’eldorado, benessere, diritti, lavoro. Invece hanno trovato condizioni peggiori di quelle che avevano lasciato nei loro paesi. Uno di loro era Soumaila Sacko.
Originario del Mali, in Italia era arrivato nel 2010, quando aveva 21 anni. Aveva trovato lavoro in Calabria, a Rosarno cittadina nota alle cronache per essere stata sede di violenti scontri tra cittadini e migranti. Gli scontri, avvenuti tra il 7 e il 9 gennaio 2010, furono causati dal ferimento di due immigrati africani da parte di sconosciuti con una carabina ad aria compressa. Non sappiamo se Soumaila Sacko avesse preso parte agli scontri, ma sappiamo che dopo quella rivolta si era impegnato per una migliore integrazione dei migranti, per ottenere condizioni migliori per i braccianti stagionali. Aveva ottenuto il permesso di soggiorno ed era diventato sindacalista. Il 2 giugno scorso Soumaila Sacko è stato ucciso da un colpo di fucile sparato da uno sconosciuto, bianco, da un centinaio di metri di distanza. E’ stato colpito mentre insieme ad altri due migranti raccoglieva lamiere tra le rovine di una fabbrica abbandonata. Le lamiere servivano per coprire la baracca in cui vivevano. La fabbrica era una vecchia fornace nel comune di San Calogero, provincia di Vibo Valentia, a pochi chilometri dalla loro baraccopoli. Produceva mattoni, ma era abbandonata da anni. La procura di Vibo Valentia ne aveva disposto il sequestro perché nel sottosuolo sarebbero state sotterrate migliaia di tonnellate di rifiuti pericolosi provenienti dalle centrali Enel a carbone di Brindisi, Siracusa e Palermo. Rifiuti contenenti nichel, vanadio, selenio, cromo, stagno, solfuri, fluoruri, cloruro. Elementi velenosi non solo per la terra, ma anche per l’aria di una delle zone più belle d’Italia. A pochi chilometri c’è il mare di Tropea.
“Italiani brava gente” è il titolo di un vecchio film ma anche una citazione usata di frequente: a molti italiani piace riconoscersi in quelle tre parole. A Roma all’EUR sul Palazzo della Civiltà Italiana si legge: “Un popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, navigatori, trasmigratori”. Nei libri di storia questo siamo stati. Oggi lo siamo certamente di meno.
Nel dopoguerra i valori della tradizione contadina, della famiglia e del lavoro permisero agli italiani di ricostruire anche moralmente il Paese. Il loro buon carattere si rifletteva nella tolleranza, nella generosità, nella solidarietà. Al Sud la ripresa ritardò e la povertà costrinse molti ad emigrare al Nord e all’estero. Poi il boom economico e il benessere arrivarono anche al Sud e la migrazione si fermò. Da circa dieci anni la crisi economica globale ha rimesso in moto le partenze verso l’estero. Dal 2008 al 2016 circa 620.000 italiani, il 30% dei quali laureati, hanno lasciato il paese. Tra loro moltissimi giovani meridionali. Nello stesso periodo, e per coincidenza geografica, il Sud è divenuto meta di immigrati che scappano dall’Africa. Scappano dalla fame e dalle guerre. In Italia e in Europa cercano condizioni di vita migliori. Non sono cattivi e meriterebbero l’appellativo di brava gente. Fanno lavori che noi italiani non vogliamo più fare. Raccolgono frutta o pomodori aiutando l’economia. Ma sono malpagati e sfruttati. Vivono in accampamenti indegni di un paese civile, fatti di capanne coperte di lamiere, in condizioni igieniche precarie.
Non fanno la pacchia come ha detto il neoministro dell’Interno Matteo Salvini il 2 giugno, festa della Repubblica, lo stesso giorno in cui Soumaila Sacko è morto ammazzato.