Un po’ di storia. La posizione dei cattolici e del Papa nella grande guerra
Fin da quando si accese il dibattito sull’entrata in guerra dell’Italia, la posizione dei Cattolici ed in particolare del Papa, schierati per il non intervento, fu vista con molto sospetto ed in certi casi apertamente condannata dai vertici politici e militari, infiltrati a tutti i livelli dalla Massoneria.
Soprattutto dopo la ritirata di Caporetto, il clero, specie quello veneto, fu sottoposto ad uno stretto e diffidente controllo. Il Vescovo di Treviso, mons. Longhin, tra i più decisi a sostenere la linea “pacifista” del Papa, ma anche uno dei più attivi a promuovere iniziative in favore dei soldati e della popolazione, aveva dato l’esempio del “buon pastore” restando al suo posto, quando la gran parte delle Autorità politiche ed amministrative se l’era svignata a gambe levate, riparando nelle città del Centro e del Sud Italia.
Nella prima lettera pastorale dopo Caporetto aveva lanciato quasi un ordine ai suoi sacerdoti, quello di rimanere “fermi al proprio posto… in qualunque evento, anche di una funesta invasione”. Il suo clero aveva bisogno di un indirizzo fermo, di una tutela attenta, perché era in atto “uno scatenamento di passione anticlericale, di internamenti di preti sospetti, di ingiunzioni feroci”. E cominciò subito la serie di Parroci accusati ed internati sulla base di semplici sospetti e di prove spesso costruite ad arte. Uno di questi fu mons. Bortolanza, arciprete di Castelfranco (prov. di Treviso), vittima, come protestava il Vescovo, “di una campagna denigratoria contro il povero esiliato, dipinto come una spia del Governo austriaco, degno della fucilazione”. Fu internato a Cosenza.
Stesso trattamento subirono don Carlo Noè, vicario di Sant’Elena sul Sile (prov. di Treviso), cacciato ed internato pure lui a Cosenza, senza che fosse reso noto il capo d’accusa; don Callisto Brumatti, parroco di Cendon, rinviato senza luogo a procedere, ma ugualmente internato a Benevento, con il divieto di celebrare la Messa; don Luigi Panizzolo, arciprete di Volpago, accusato di aver dissuaso i lavoratori addetti al Genio Militare di lavorare nei giorni festivi; don Attilio Andreatti, arciprete di Paese, la cui opera invece era riconosciuta dai parrocchiani “degna di alto encomio”. E così toccò a tanti altri.
Lo stesso Vescovo finì in un “libro nero” di un tribunale di guerra, “perché un parroco mi offrì i servizi di un suo parrocchiano conoscitore della lingua tedesca” e se ne lamentò sdegnato in una lettera al Papa, a nome degli oltre 40 sacerdoti perseguitati nella sola sua Diocesi, concludendo così: “La massoneria, Padre Santo, non ci perdonerà mai le benemerenze acquisite davanti al popolo”.