Abbonda in articoli di giornali e riviste ma anche alla televisione e in testi legislativi. Fenomeno dovuto a un complesso di inferiorità?
Sono da sempre convinto, anche per amor patrio, che l’italiano sia la più bella lingua del mondo. E non sono il solo a pensarla così, a riconoscere al nostro idioma il suono armonioso che lo caratterizza. Cui si aggiunge il fatto che, essendo ricco di vocaboli (160.000), di sinonimi e di modi di dire di origini latine, greche, etrusche, spagnole, francesi e germaniche, cioè dei popoli che, dall’VIII secolo a.C. fino al 1848 hanno vissuto e regnato nella Penisola, ci narra la storia della nostra Nazione.
Tale convinzione mi spinge a chiedere perché molti la rimpiazzino, spesso e volentieri, con parole inglesi. Sostituzione che avviene anche nei testi legislativi, ove si definiscono caregiver la cura familiare e whistleblower l’allertatore civico. Ma pure nelle definizioni di Enti pubblici, in alcuni disegni di legge, persino nel nome di un partito, fondato recentemente, quel “Casapound”, Casa del Pound (denominazione di un Centro per anziani esistente a Roma) forse per il fatto che, tra i significati di Pound, c’è pure quello di “Persone”.
Tendenza che può provocare guai a chi non conosce la lingua degli anglofoni. Come può succedere con la Flat Tax, cioè la tassa sul reddito familiare e, qualche volta, sui profitti delle imprese. Certo, fu pensata nel 1956 dallo statunitense economista Milton Friedman. Ovviamente lecito importarla in Italia. Ma è soprattutto necessario farla comprendere a chi deve pagarla, quella imposta, essendone esonerate le famiglie con reddito inferiore a quello stabilito dalla legge.
Il che vale anche per la riforma del diritto del lavoro, effettuata da Renzi, il Jobs Act così chiamato per il riferimento alla legge americana Jumpstart Our Business Startups Act, termini dei quali sono state prese le iniziali. Forse ben pochi Italiani ne conoscono l’esistenza, quindi il nome. C’è da chiedersi quanti sappiano che Jump significa “salto” e Start inizio, avvio, partenza ; e che rapporto hanno, questi termini, con la riforma che abolisce alcune forme contrattuali precarie e le dimissioni in bianco, diversifica il lavoro dipendente da quello autonomo e ha abbattuto il precariato, nonché aumentato l’indennità di maternità. Risultati e modifiche in qualche modo collegabili al termine Start, ma non con Jump.
Certo, l’uso di alcuni vocaboli inglesi è determinato dal fatto che esprimono concetti, indicano persone, si riferiscono ad azioni che, in Italiano, hanno bisogno, per essere comprese, di più parole. Ciò vale, ne cito solo qualcuna, per Hacker (esperto di sistemi informatici e di sicurezza informatica); Email (posta elettronica professionale), Exit poll (sondaggio sui risultati di un’elezione), Bipartisan (maggioranza e minoranza), Stepchild adoption (adozione del figlio del proprio compagno/a), Speech (discorso di un candidato o di un personaggio politico), Spin doctor (esperto che elabora strategie per ottenere consenso elettorale), Customer Care (ufficio preposto all’assistenza clienti), ed ora anche il VAR (Video Assistent Referee, cioè il video assistente arbitrale ) introdotto quest’anno nel campionato di calcio in Italia.
Lo stesso vale per termini come gay (omosessuale), chat (chiaccherata), Welfare (benessere), Mission (dichiarazione d’intenti di un’azienda), Startup (giovani aziende che promuovono idee innovative), Part time o Full time (contratto di lavoro ad orario ridotto o pieno); Meeting (incontro di lavoro); Hardware (componente fisica di strumenti elettronici); E-mail (posta elettronica); Smartphone (cellulare per navigare in internet). E via elencando. Sarà anche vero che “per poter lavorare nel mondo serve l’inglese, soprattutto a voi ingegneri”, come Beppe Severgnini ha scritto sul Corriere della Sera del 7 febbraio scorso, suscitando l’obiezione di un lettore che, tra l’altro, ha detto: “la smania di adottare l’inglese, superlingua di prestigio, al posto dell’italiano, lingua provinciale, racconta come siamo oggi più di tante indagini sociologiche. L’Italia dei nostri padri parlava dialetto. Prima “l’italiano era la lingua colta usata a scuola, sui giornali, nelle cerimonie e nei discorsi al punto che, diffuso in tutti gli ambiti, diventò veramente lingua nazionale… Poi gli italiani decisero che anche l’italiano era un dialetto. E sparirono le rubriche di lingua sui giornali”.
Fenomeno dovuto ad un “Complesso di inferiorità? Provincialismo? Paura di apparire retrogradi?”, come si è chiesto il critico di Severgnini. Sta di fatto che “l’inglesizzazione dell’italiano procede a marce forzate, e come tutte le cose fortemente volute avrà il successo che merita. A questo punto chiedo: cosa pensare di un popolo di quasi 60 milioni di persone che rinuncia con così festante leggerezza a un tratto identitario così importante come la lingua?” Domanda che dovremmo porci tutti al fine di “mantenerla viva”, come auspicato da Rita Librandi, professoressa di Storia della lingua italiana e di Linguistica italiana all’Università di Napoli. Per non manifestare un ingiustificato complesso di inferiorità.