Tullio De Mauro: individua nel protagonista della favola di Andersen il prototipo dell’intelligenza inventiva che accomuna Alessandro Magno ed Albert Einstein.
Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 31 marzo 1932 – Roma, 5 gennaio 2017), è stato un linguista e accademico italiano. Importantissimo linguista e professore di linguistica e di filosofia del linguaggio. Ha insegnato Linguistica generale e ha diretto il Dipartimento di Scienze del Linguaggio nella Facoltà di Lettere e Filosofia e successivamente il Dipartimento di Studi Filologici Linguistici e Letterari nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università la Sapienza di Roma, facoltà che ha contribuito a fondare, insieme ad Alberto Asor Rosa. Ricordiamo che Tullio De Mauro è stato allievo di E. Pagliaro.
Se volete capire una parola, guardate a chi la usa, diceva Ludwig Wittgenstein il filosofo austriaco, che ha esercitato una grande influenza nel pensiero contemporaneo del “Novecento”. E. Pagliaro (grande linguista del Novecento); nel segno linguistico, nella frase o nella singola parola, vive la traccia dei parlanti. La storia di qualunque famiglia di parole costringe il linguista a un andirivieni tra lingue e fenomeni storici e culturali d’ogni tipo. Vi è a monte un progetto etnografico, storico-culturale delle ricerche linguistiche che è il motivo non ultimo del loro fascino.
Il fatto è che noi siamo fascinati nelle parole e nel linguaggio. Ma probabilmente fascinare non è un buon termine: noi, la nostra intelligenza, i nostri affetti, le nostre capacità di collaborazione e metterci in sintonia con il prossimo, le nostre culture sono intrise dell’ossigeno delle parole che la nostra lingua ci offre e dei nuovi sensi che, a partire da essa, noi creiamo e altri creano con noi intorno a noi nella nostra comunità e nel vasto mondo. Tutta la nostra vita respira linguaggio. Certo che per parlare dobbiamo conoscere le parole e le regole di una lingua e di una grammatica, almeno di una. Ma per capire una parola nuova, per imparare ad usarla, e ancor più per trovare le vie del dire una nuova parola o una vecchia parola in nuovo senso(pensate a Italo Calvino che di una parola che indicava un difetto, leggerezza, ha fatto la parola che indica la qualità suprema dello stile), non basta saper imitare, non basta saper rispettare le regole.
Occorre anche ciò che il russo Lev Vygotskij chiamava un “libero scatto”, un salto verso il nuovo, un appello alle nostre capacità umane di sapersi trarre d’impiccio come Alessandro Magno dinanzi al nodo di Gordio che nessuno sapeva sciogliere, come Albert Einstein ragazzo che si chiedeva che cosa succederebbe se un corpo viaggiasse alla velocità della luce. E Alessandro si apri la strada tagliando il nodo con la spada e Einstein aprì le strade della fisica contemporanea. Più umilmente anche noi dobbiamo praticare spesso, con le parole l’arte umana del tirare a indovinare e verificare poi se abbiamo o no indovinato. Questo “libero scatto” è questa capacità di risolvere un problema cambiandone i termini e le condizioni: ecco, ancora una volta , ciò che chiamiamo creatività.
Analizzando una vecchia favola di Hans Christian Andersen ci mette dinanzi all’intreccio di qualità che fanno il nostro linguaggio e non il linguaggio. È la favola del Klods-Hans, Hans lo stupidotto , in italiano Gian Babbeo. È una fiaba di prova. E la prova è riuscire a far conversare e sorridere una principessa affetta da depressione e mutismo. Chi ci riuscirà la avrà in sposa ed erediterà il regno. Gran fermento tra i giovani sudditi. Il vecchio padre spinge i due figli bravi a tentare la prova. Il primo è bravissimo sa a memoria tutto il vocabolario latino, dalla a alla zeta, e ha memorizzato per intero le ultime tre annate del più autorevole quotidiano del regno. Il secondo non solo ha memorizzato tutte le leggi e i regolamenti del regno, ma sa anche combinarle per risolvere opportunamente le controversie giudiziarie. Anche a non essere Jung o Propp riconosciamo nel primo il prototipo dell’intelligenza imitativa, nel secondo il prototipo dell’intelligenza combinatoria. Cosi su nobili cavalli i due fratelli si avviano verso la prova. Il padre cerca di dissuadere il terzo fratello e figlio, lo Stupidotto. Ma quel Gian Babbeo(lo stupidotto) non si da per vinto. Il padre gli nega tutto, anche la possibilità di avere un cavallo per poter raggiungere la principessa. Ma lui viaggia verso la reggia a cavallo di un bel caprone di casa.
I due fratelli bravi e seri per strada ripassano la lezione, sicuri di fare colpo, uno ripassa le parole latine, dalla a alla zeta, l’altro le leggi e i regolamenti. Invece Gian Babbeo (lo stupidotto) procede a cavallo del suo caprone con aria svagata: tra le risa dei fratelli, raccatta per strada uno zoccolo rotto, una cornacchia morta, una manciata di fango semiliquido da mettere in tasca. Arrivano infine alla reggia e… anche l’eventuale lettore meno creativo può immaginare come va a finire. I due fratelli bravi, al cospetto della principessa e degli arcinotai del regno, in una stanza caldissima, balbettano solo qualche parola confusa e la principessa li manda via con un cenno, senza conversare con loro. Gian Babbeo invece non si perde d’animo, propone alla principessa di usare il gran fuoco per fare un arrostino. Quella si incuriosisce dice che non c’è una padella. Eccola, risponde il Babbeo tirando fuori lo zoccolo. Ma non c’è la carne, è costretta a dirgli. Eccola la vecchia cornacchia. Ma non c’è condimento. Macchè , risponde il Babbeo, c’è dell’ottimo fango semiliquido.
Ora la principessa ride di cuore. Gli arcinotai registrano con scrupolo. La principessa ormai conversa e ride di cuore, Gian Babbeo la sposerà ereditando il regno. Se c’è una morale in questa fiaba dello scrittore sul linguaggio e creatività, se quel Gian Babbeo è davvero un maestro di creatività e di vita, un prototipo di un intelligenza creativa. Ma forse a mio modesto parere come studioso di filosofia della comunicazione, e studioso delle scienze umane ed epistemologiche, vale la pena di aggiungere che Gian Babbeo è il prototipo dell’intelligenza creativa, a corroborare questo pensiero resta di fatto, che non avrebbe potuto realizzare la sua impresa senza saper parlare la sua lingua danese, e senza saper osservare attentamente , pur con aria svagata, che cosa c’era per la strada che avrebbe potuto servigli. Senza osservazione e imitazione, senza grammatica, l’intelligenza creativa si trova a mal partito. Quindi in definitiva in ogni essere umano convivono i tre fratelli gomito a gomito in ciascuno di noi, insieme fanno il nostro linguaggio e la nostra vita.