Una condizione la mia diventata comune a tanti, paradossalmente normale quando il confronto con i tanti giovani precari o inoccupati verte sempre sullo stesso sentimento di delusione e rabbia.
Essere precario oggi vuol dire appartenere a quel mondo del lavoro che come unica possibilità impiegatizia ti propone contratti co.co.pro o co.co.co ( conseguenze ormai note della legge Biagi) lavori part-time o addirittura in nero. Aumentano col tempo i curriculum cestinati nelle varie agenzie del lavoro, i colloqui conoscitivi che il più delle volte si concludono con un semplice “la contatteremo al più presto per farle sapere” e i vari concorsi pubblici a cui accorrono carovane di giovani speranzosi che quel posto vacante possa miracolosamente essere di uno di loro.
Il precariato avvilisce chi negli anni ha scelto un percorso di studi universitario atto e finalizzato a mettere a frutto il proprio titolo di studio, ma a nulla sono valse le difficoltà economiche e i sacrifici di molti per raggiungere la tanto auspicata laurea. A questa si sono succeduti i lucrosi Master e i vari corsi di specializzazione, ancora anni sui libri per essere comunque non occupati.
Quella di oggi è un’impasse collettiva, una stasi occupazionale che toglie ai giovani la ben minima e remota speranza che la situazione possa cambiare nel giro di pochi anni: sognare di percepire un giorno uno stipendio e avere un proprio sostentamento economico sembra essere diventato il miraggio di molti e la realtà di pochi.
L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, cita l’art.1 della nostra Costituzione, ma proprio su questo importante fondamento vacilla il nostro Paese. Il nostro Governo mistifica la grave crisi economica con false dichiarazioni di ripresa e noi giovani, accomunati dagli stessi sentimenti di indignazione e rabbia, vogliamo gridare al cambiamento di quella stessa classe politica che parla ma non ascolta, che guarda ma non vede il dilagante senso di incertezza su cui oggi si fonda la nostra società. Noi siamo stanchi di essere governati da politici che non vogliono rinunciare alle loro comode poltrone e si arrogano il diritto di trattarci come la peggiore delle categorie, che sentenziano senza tenere conto di quei tanti precari che ancora oggi fanno i lavori più diversi, che pur di lavorare dequalificano il proprio titolo di studio, o quelli che lavorano lontano dalle proprie famiglie e che scelgono addirittura di andarsene all’estero.
Noi non ci riconosciamo in questa realtà e non vogliamo subire questa grave crisi per sempre e l’indignazione dei tanti precari alle parole del ministro Brunetta è la dimostrazione che la nostra non è una condizione accettabile, ma vogliamo sentirci parte attiva di un Paese in cui il lavoro ci dia nuovamente dignità.