Da San Siro non solo il calcio italiano è uscito perdente, ma un’intera nazione
Incredulità, tristezza, sconforto, dispiacere, dolore, rabbia. E’ questa la lista, certamente incompleta, dei sentimenti dei milioni di italiani che lunedì 13 novembre hanno seguito, incollati alla TV, l’ultima partita della nazionale di calcio, giocata contro la Svezia a Milano. La lista è incompleta perché tantissimi e svariati sono gli stati d’animo che uno sport popolare come il calcio riesce a generare, nel bene e nel male, nell’immaginario collettivo come nei cuori dei singoli. Di essa fa parte la delusione. Una delusione amara che ci accompagnerà per quattro anni e più.
La posta in gioco di Italia-Svezia era la qualificazione ai mondiali di calcio, l’evento sportivo più importante del pianeta. Nell’attimo stesso del fischio finale abbiamo capito che la vera posta in gioco era ed è un’altra, ben più alta della partecipazione ai mondiali 2018. Abbiamo capito che essa oltrepassa il perimetro dei campi di gioco, che travalica le tribune e le gradinate, e che ci riguarda tutti, noi italiani, volenti o nolenti, amanti o meno dello sport più popolare del mondo. Dal prato verde di San Siro non è solo la nazionale di calcio che è uscita perdente, ma un’intera nazione.
Per capirlo dobbiamo riflettere sul ruolo che lo sport svolge nella società come elemento di aggregazione, come catalizzatore di sentimenti e di valori positivi, come strumento di formazione e di educazione. Educazione nell’accezione più autentica del termine, che altro non significa che tirar fuori il meglio di una persona per promuoverne lo sviluppo delle facoltà intellettuali e delle qualità morali. Ma educazione è, anche e semplicemente, il contrario di maleducazione. Purtroppo maleducazione e comportamenti inqualificabili hanno da tempo fatto ingresso negli stadi italiani trasformando le partite di calcio in manifestazioni d’odio e di violenza. Gli esempi sono molteplici e qui ci limitiamo a citare l’ultimo, quello rappresentato dall’oltraggio alla memoria di Anna Frank di cui si sono fatti artefici gli ultra della Lazio in vista del derby con la Roma. Usare l’antisemitismo come mezzo di offesa nei confronti di una squadra di calcio e dei suoi tifosi è segno evidente che il limite è stato ormai superato e che si è entrati in uno spazio in cui le parole educazione, rispetto e sport non hanno più dimora.
Lo sport appartiene a tutti, al di là di chi lo pratica personalmente per diletto o a livello agonistico. Come tale esso è specchio della società. I valori in esso connaturati sono quelli della lealtà, della solidarietà, della generosità, della sana e onesta competizione. E, perché no, della giustizia. Questi valori non nascono negli stadi, ma nelle case e nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle strade e nelle piazze delle nostre città. Se lo sport è specchio della società è dunque nella società che vanno ricercati i motivi del suo successo o del suo insuccesso, di trionfo o di crisi, di riscatto sociale o di decadenza.
Trovandoci in Germania è appropriato e opportuno fare una considerazione che riguarda questo paese. L’ultimo campionato mondiale di calcio è stato vinto dalla Germania tre anni fa, nel 2014. Questa vittoria ha avuto effetti straordinari sulla società tedesca e sui singoli individui. Dopo decadi caratterizzati da sensi di colpa per un passato mai completamente rimosso, i cittadini e le cittadine della Germana hanno riscoperto il significato e il valore dell’orgoglio nazionale, del senso di appartenenza e di partecipazione. Quello che non era riuscito a produrre, in modo compiuto, la caduta del muro di Berlino, lo ha fatto in modo altrettanto rapido e festoso, ma ben più diffuso e capillare, la vittoria dei mondiali. Una vittoria che ha dato al popolo tedesco una nuova identità accompagnata, legittimamente, dal ruolo di locomotiva economica e industriale conseguito dopo le riforme che la politica è riuscita a realizzare.
Trionfo o decadenza abbiamo detto. Soltanto pochi giorni fa la Rai ha trasmesso la scena, rimbalzata poi nei social della rete, della violenta testata che un signore di Ostia ha dato al giornalista che lo interrogava davanti alla sua palestra in una strada di Ostia. Il fatto è di notevole gravità perché è accaduto durante un’intervista su possibili contaminazioni mafiose nella politica locale.
Ma ancor più grave del fatto stesso è stata la manifestazione di solidarietà per l’autore della testata che il giorno dopo alcuni cittadini hanno espresso all’atto del suo arresto da parte dei carabinieri. Ciò è sconfortante perché va ben oltre l’omertà e configura una totale assenza di senso civico e dello Stato da parte di quei cittadini. Come si può isolare il crimine quando i comportamenti malavitosi riscuotono consenso e plauso? E’ nella società che vanno ricercati i germi del degrado che poi raggiungono gli stadi. Se ciò è vero, è da fatti come quelli citati, ancorché diversi tra loro, è dall’oltraggio alla memoria di Anna Frank, è dalla testata di Ostia che bisognerà partire per capire cosa non sta funzionando nella società italiana. E sarà bene che di questa analisi si facciano carico le istituzioni a cominciare dalle scuole e dai centri sportivi riscoprendo il significato della parola educazione.
Vorrei terminare con un’ultima citazione. Quella della partita Italia-Germania del mondiale di calcio del Messico del 1970. Chi scrive ha avuto la fortuna di vederla quella partita, nonostante l’ora tarda della notte. Era il 17 giugno del 1970. Finì ai tempi supplementari col risultato di 4 a 3 per l’Italia. Fu chiamata la partita del secolo, nonostante non fosse una finale. Gli azzurri giocarono con una grinta che rese quell’incontro avvincente e indimenticabile. La gioia e l’orgoglio di quella partita avrebbero accompagnato il sentimento nazionale per gli anni a venire diventando una pagina gloriosa della storia recente del nostro paese. Da quella partita e da quella vittoria ci separano, oggi, non 47 anni solari, ma, purtroppo, anni luce.
I prossimi mondiali li guarderemo con un senso di languore per l’assenza degli azzurri, questo è certo. Ma che si abbia il coraggio di ammettere che l’eliminazione non è stata un colpo di sfortuna, né che è imputabile a scelte tattiche errate da parte del commissario tecnico. No. Essa è, piuttosto, il risultato di una cultura che a forza di criticare tutti e tutto ha smesso di fare autocritica in modo serio e costruttivo e che ha dimenticato cosa significhi lavorare con sacrificio e umiltà.
Ogni tanto nella vita bisogna toccare il fondo per potersi risollevare. La speranza è che i prossimi quattro anni servano a individuare i rimedi per ridare slancio allo sport italiano e con esso alla società intera.