Anno dopo anno, i soldi destinati all’Aiuto allo Sviluppo si sono ridotti drasticamente, fino a quasi scomparire. Si tratta del capitolo di spesa che più ha sofferto della forbice del governo italiano: se rispetto al 2010, infatti, il bilancio complessivo del Ministero degli Affari esteri si è contratto di 185 mln di euro, il 79% dei tagli ha riguardato proprio gli aiuti ai Paesi in difficoltà. Ma con tali riduzioni, l’Italia non ha solo tradito quelle grandi promesse di impegno di cui si era fatta carico, ma ha anche contribuito alla sua perdita di potere politico nello scenario europeo ed internazionale.
E con questo, si allontana anche la possibilità di realizzare quell’obiettivo dello 0,7% di Pil in Aps promesso dal Mae per il 2015. Una percentuale irrisoria nel bilancio di uno Stato, ma che “potrebbe salvare la vita di milioni di poveri” – denunciano le ong di Social Watch – ed evitare il ripetersi di una crisi libica. Ed invece, non solo questa percentuale non è cresciuta, ma è addirittura scesa dallo 0,22% del 2008 allo 0,16% del 2009, trascinando in basso anche l’Europa. L’obiettivo comune che gli Stati membri avrebbero dovuto raggiungere entro la fine del 2010, infatti, era dello 0,56%; se questo non è accaduto è in gran parte colpa del nostro Paese: siamo “responsabili del 40% dei fondi mancanti – dice ancora la rete di ong -, ovvero di circa 4,4 miliardi di euro”. Insomma, non abbiamo fatto certo una gran figura e non c’è da stupirsi se, nell’ambito dell’istituzione del Servizio diplomatico europeo (Seae), all’Italia siano toccati Paesi come Albania e Uganda, mentre, ad austriaci e spagnoli, il Giappone e l’Argentina.
E anche stavolta, l’Italia dà la colpa alla crisi economica, ma Social Watch smentisce: “I tagli sono cominciati prima del tracollo di Wall Street” e poi, in ogni caso, la crisi non ha impedito ad altri Paesi di onorare i propri impegni. La Gran Bretagna, ad esempio, “è determinata a raggiungere il traguardo dello 0,7% entro il 2013, nonostante un deficit pubblico galoppante, una politica economica che propone tagli alla spesa pubblica e un orientamento governativo non esattamente progressista”.
Anche l’Ocse ha avuto da ridire sulla nostra strategia cooperativa. Sotto accusa è la legge n.49, una vecchia norma dell’‘87 che ancora oggi regola la materia. Il problema, però, è che l’Italia ha scelto di compensare i tagli alle risorse puntando sulle partnership con altri soggetti, come ong, imprese private ed attori statali, mentre questa legge non prevede misure di controllo e verifica sul tipo di attività di aiuto svolte nei Paesi beneficiari. Così, è facile che questo strumento finisca per privilegiare e sostenere alcune imprese italiane, piuttosto che aiutare davvero i Paesi in difficoltà. Prendiamo, ad esempio, il caso Gilgel Gibe 3, il più grande progetto idroelettrico mai realizzato in Etiopia e affidato all’italiana Salini Costruttori S.p.A.. Si tratta di una mega diga che, se completata, sbarrerà il corso del fiume Omo, compromettendo la vita di numerose comunità locali che vivono sulla valle del fiume in Etiopia e sulle rive del lago Turkana in Kenya, dove il fiume sfocia. E il tutto con i soldi della cooperazione.
Poco risolutivo anche lo strumento delle rimesse, considerate anch’esse dal governo italiano una carta vincente nella propria strategia cooperativa. Alla fine del 2009, il ministro Frattini ha promosso un’iniziativa per ridurre dal 10% al 5% i costi dell’invio di denaro degli emigrati ai Paesi di origine. In realtà, però, le rimesse non producono sviluppo, ma sono un semplice palliativo che può generare effetti distorsivi sui territori. Molti Paesi del Sud, infatti, sembrano contare eccessivamente su questi soldi, incentivando addirittura i flussi migratori; ma l’emigrazione della forza produttiva disincentiva l’attività lavorativa e affida un’economia ad uno strumento imprevedibile e soggetto a spinte inflazionistiche.