Un silenzio è sceso sullo stracolmo teatro di Milano quando Paolo Conte, con la sua voce mista di ghiaia e seta, ha iniziato a cantare “Madeleine”, regalando così il al suo pubblico il momento più alto della serata. "Ma poi la strada inghiotte subito gli amanti," cantava, mentre il suono lamentoso della fisarmonica si univa alla profonda e vellutata melodia del violino.
Quando si è scoperto che Paolo Conte ha fatto il tutto esaurito per la sua esibizione al Royal Albert Hall per il London Jazz Festival, alcuni si sono chiesti: “Chi?” Altri, invece, quelli che conoscono i segreti meglio conservati del jazz, hanno sorriso con profonda affezione, perché non solo “Madeleine” è una delle più grandi canzoni del jazz di tutti i tempi, ma anche perché Conte è forse l’ultimo dei sofisticati giganti del jazz europeo. È l’emissario di un’era, di quell’era che egli stesso chiama dell’”eleganza”.
“Madeleine” non è solo la canzone che parla di una donna e dei suoi misteri, è "la canzone perduta, e ritrovata”. Conte, così come la sua musica, canta di un modo di vivere ed amare che è stato perso da quello che egli stesso chiama “superfluo e volgare cattivo gusto” della postmodernità.
Quando Conte si fa conoscere dai pubblici fuori d’Italia, chi lo recensisce lo descrive come un mix tra Frank Sinatra, Tom Waits e Leonard Cohen, con giustificazione. Ma ancora più azzeccati sarebbero Duke Ellington, Wassily Kandinsky, Baudelaire e altri musicisti, pittori e poeti che hanno forgiato il jazz avanguardista della Parigi degli anni ’20, la “culla della sua musica”, come egli stesso la definisce. Parigi anni ’20: “l’era in cui così tante rivoluzioni sono accadute insieme, non solo lì, ma anche in America, Russia, Inghilterra e nel resto del mondo. L’era delle rivoluzioni nella musica, pittura, poesia e letteratura che hanno fatto il modernismo, l’esplosione e la rivoluzione della modernità”.
Il più comune malinteso che si può fare quando si parla di Conte è quello di scambiare il suo romanticismo per semplici sentimentalismo e conservatorismo. Ma Conte è molto altro. Ѐ nato, cresciuto e sempre vissuto ad Asti, tra i vigneti del Piemonte, e non in una piccola cittadina della Francia. Aveva due anni quando è esplosa la seconda guerra mondiale, ma i suoi genitori furono in grado di contrabbandare i dischi delle grandi band della musica swing, amata dal padre, e di quella jazz, amata dalla sua adorata madre.
Più tardi egli intraprese gli studi legali del padre e praticò legge fino a quando l’amore per la musica lo chiamò alla carriera dello show business, con il compito di “prendere un pezzo di quella cultura prebellica e trasferirlo nell’epoca successiva”.
Le canzoni e la musica di Conte sono la quinta essenza di molte di quelle ragioni per cui tanti di noi si innamorano dell’Italia degli anni ’70, anche se solo fino ad un certo punto. Conte preserva la civiltà di quell’Italia, di quella prima dell’avvento dell’assurdo e sinistro Silvio Berlusconi alla politica che, come lo scrittore Andrea di Robilant una volta mi disse, “è invece come la bella figura andata “from class to crass”, dalla classe al crasso". Paolo Conte incarnava e incarna tuttora la classe.
Egli è completamente pre-digitale – nessuno dei suoi suoni o canzoni non sarebbe riproducibile anche negli anni ’20 – ma non è nulla che egli faccia con nostalgia, egli insiste. “Nostalgia è un termine completamente sbagliato. Come posso essere nostalgico per gli anni ’20 se non li ho vissuti? È piuttosto un genuino lutto per quello spirito romantico, per i suoi piccoli segreti e misteri persi in questo tempo della mediocrità, in cui le cose sono più volgari che belle e in cui vi è così tanto cattivo gusto.”
Le sue canzoni risuonarono velocemente in l’Italia – “Via con me” è una delle preferite di tutti I tempi – e poi in Francia, dove Conte è estremamente popolare. Infine nella moderna Europa e negli Stati Uniti, dopo un tour nel ’98, quando le riviste Rolling Stone e The New Yorker intitolarono The Best of Paolo Conte l’album dell’anno. Ma in tutto quel tempo che egli rimase ad Asti, egli dice, “viveva una vita normale, fatta di momenti semplici e settimane enigmistiche, lontana da quel successo”.
“Raramente ho viaggiato volontariamente”, racconta, “per lavoro certamente, ma mai come turista. La musica è il mio grande viaggio ed è meglio stare a casa, dove ho così tanto tempo per poterci lavorare”. Come per molti dei grandi artisti e scrittori italiani, incluso uno dei più gradi novellisti del mondo, Alessandro Manzoni, il mondo e i viaggi di Conte sono nella mente.
Conte spesso usa spesso insieme queste parole: “profumo” ed “eleganza”. Parla di voler esprimere “la fragranza dell’eleganza, di morire sull’ultimo respiro dello spirito romantico”. Egli dice anche: “Nella musica io vedo i colori. Potrebbero non essere i colori che vede il mio pubblico, la gente potrebbe vederne diversi o non vederli affatto”.
L’ultimo album di Conte, “Nelson” – un gioiello – è intitolato al suo cocker, morto due anni fa, ed è dedicato al suo amico e manager di vecchia data, Renzo Fantini. Nonostante questo, l’album non è un melanconico tributo, anzi l’opposto. “Eleganza significa anche provare amarezza in questi casi, certamente”, egli dice, “ma è anche divertimento, e io vedo in questo qualcosa di morale ed etico. L’umorismo infatti è sempre onesto ed alcune volte è l’unica cosa che ti rimane.”
Poi, naturalmente, c’è l’amore: le donne nelle canzoni di Conte sono sfuggenti e misteriose, alla maniera di Greta Garbo o Marlene Dietrich. E le sue pin-up, come Alida Valli, lo sono in quel modo in cui nessuna Jennifer Aninston o Demi Moore potrebbe mai sperare di essere. “Forse perché”, dice Conte, “c’erano così tanti taboo ai miei tempi, che uno doveva girargli intorno, con umorismo, charme e corteggiamento. In una parola, con eleganza”.
Ed infine gli chiedo: “Cosa rappresenta per lei la cacofonia di oggi?” “Il vino non sa come quello di una volta”, mi risponde. E poi, più tardi, quella sera sul palco, piegato sul piano e con quell’inimitabile cross tra un brontolio e un sussurro, egli mi risponde alla domanda con una canzone: “Le chic et le charme”.