MONACO – Annunciata prima, poi smentita, la vendita delle sedi del Consolato e dell’Istituto di cultura di Monaco
Ci sono notizie che suscitano incredulità e sconcerto. E che farebbero ridere, se non ci fosse da piangere. Lo Stato italiano vuole vendere, a Monaco di Baviera, gli edifici sede del Consolato e dell’Istituto di cultura. La notizia è stata data, non si sa bene da chi, senza fornire spiegazioni sul futuro delle due istituzioni. La preoccupazione sulla loro sorte ha indotto alcuni connazionali residenti a Monaco a indire una petizione online. Nel momento in cui scriviamo hanno firmato 733 persone.
Da quando la notizia è stata data, una domanda aleggia nelle menti di molti, italiani e non, utenti delle due istituzioni: la vendita delle due sedi è connessa all’acquisto (o all’affitto) di nuove sedi o sottende la successiva soppressione delle due istituzioni e delle funzioni che esse svolgono?
Siccome la vendita riguarda beni pubblici e siccome le sue conseguenze ricadrebbero su migliaia di persone, ci si sarebbe aspettati più attenzione e rispetto nei confronti di questi cittadini. Il che significa semplicemente più chiarezza e trasparenza.
Quanto a trasparenza e chiarezza gli italiani, in particolare quelli che occupano posizioni istituzionali, hanno molto da imparare nonostante le dichiarazioni ufficiali e di facciata. Da quando notizia è stata resa pubblica sono passati oltre due mesi e intorno alla vendita permane un inquietante alone di mistero. Le reazioni sono state, però, tali e tante (la petizione, alcune interrogazioni parlamentari, una lettera aperta al ministro degli esteri) da dissipare ogni dubbio sulla veridicità della notizia.
La decisione di mettere in vendita i due edifici è presumibilmente legata alla legge di stabilità, strumento con cui annualmente il governo realizza gli obiettivi di finanza pubblica. Puntualmente vi si parla di contenimento della spesa e di tagli agli sprechi, dei modi e delle misure per ottenere risparmi. E non potrebbe essere altrimenti vista l’immane voragine del debito pubblico italiano. Ma ci sono modi e modi. E sprechi e sprechi.
Il 20 marzo la Rai ha trasmesso un servizio sulla casa-museo di Pirandello ad Agrigento. Nell’edificio, di 80 mq, lavorano 66 dipendenti, tra cui 15 custodi. A Torino nel museo egizio i custodi sono 32 per 10.000 mq. A Monaco i dipendenti dell’Istituto di cultura sono cinque, direttore compreso. Saranno pure paragoni e discorsi da bar, ma come non indignarsi quando lo Stato con una mano distribuisce prebende ingiustificate e con l’altra impone sacrifici ingiusti?
Gli immobili in cui hanno sede Consolato e Istituto di cultura appartengono allo Stato italiano rispettivamente dal 1951 e dal 1954. In essi si svolgono attività tutt’altro che secondarie o suscettibili di chiusura. Tali attività sono direttamente proporzionali a un bacino di utenza molto vasto e variegato, rappresentato non solo dagli italiani che vivono in Baviera, ma anche dai cittadini di altre nazionalità, tedeschi in primis, che hanno stabilito rapporti con l’Italia o che intendono stabilirli.
Nella sede dell’Istituto di cultura hanno luogo, tra l’altro, anche i corsi di italiano. La lingua è il primo veicolo della cultura di un paese. Questo lo sanno bene anche i cinesi che hanno in programma l’apertura, nei cinque continenti, di mille Istituti Confucio entro il 2050. Nonostante la nostra lingua sia molto richiesta (e, consentiamocelo, molto più bella di quella cinese), l’Italia i suoi istituti di cultura invece di aprirli li vende o li chiude. I due edifici di Monaco invece di essere venduti andrebbero sottoposti agli interventi di manutenzione straordinaria di cui hanno urgentemente bisogno per svolgere al meglio le loro funzioni.
La Baviera è lo stato della Germania con la maggiore estensione geografica. Ha una popolazione di circa tredici milioni di abitanti, ben superiore a quella dell’Austria o a quella della Svizzera. Gli italiani che ci vivono sono circa centomila. In quanto sede di numerose industrie, di centri tecnologici d’eccellenza nonché di università e istituzioni culturali di primaria importanza, la Baviera ha intensi rapporti scientifici, commerciali, giuridici e culturali con l’Italia intera e in particolare con le regioni settentrionali.
Siccome se ne tralascerebbero non poche, è semplicemente impossibile elencare le innumerevoli realtà che impersonano questo felice connubio. Altrettanto impossibile è tentare di quantificarne il valore in quanto non riconducibile a un calcolo meramente economico. Una cosa però può essere affermata senza ombra di dubbio. L’introito derivante dalla vendita dei due edifici è certamente risibile se confrontato a tale valore, mentre i danni che ne deriverebbero in termini politici, sociali, culturali e di immagine sarebbero incalcolabili.
Anche se in ordine sparso e prive di coordinamento, le diverse reazioni alla vendita sembra abbiano sortito qualche effetto. Da Roma sono infatti arrivate le prime dichiarazioni rassicuranti, ancorché non unisone: la vendita non ci sarà; se ci sarà, riguarderà soltanto l’edificio del consolato; in tal caso però i suoi uffici verranno spostati in altra sede adeguata. Basteranno tali rassicurazioni a far considerare scampato il pericolo della soppressione definitiva delle due istituzioni? C’è da sperarlo. Tuttavia le dismissioni di consolati e istituti di cultura, avvenute nel mondo negli ultimi anni nonostante le rassicurazioni della politica, fanno temere il contrario. Nella sola Germania nel 2014 sono stati chiusi l’Istituto di cultura di Francoforte e gli uffici consolari di Norimberga.
Consolati e istituti di cultura sono un ponte tra le nazioni. Sopprimerli equivale ad abbattere questi ponti. Il 25 marzo scorso a Roma i capi di governo della UE hanno firmato una dichiarazione col chiaro obiettivo di rilanciare l’Unione e rimarcare l’importanza dei valori comuni e dei legami tra le nazioni partecipanti, a dispetto dei muri e quale baluardo della indivisibilità dell’Unione. Nella dichiarazione i leader dei 27 stati UE hanno sottolineato l’importanza dello sviluppo culturale e sociale e hanno sottoscritto “l’impegno a dare ascolto e risposte alle preoccupazioni espresse dai cittadini”. La speranza della collettività italiana e tedesca di Baviera, nonché di tutti coloro che vivono in questo Land e a cui sta a cuore il rapporto con l’Italia, è che questo impegno venga rispettato.
Abbiamo detto che la petizione ha raggiunto, online, quota 733 firme, un numero decisamente basso considerando quanti italiani vivono in Baviera. Siccome è stata pubblicizzata anche attraverso i social network locali ci si sarebbe aspettati un consenso di pubblico maggiore. Firmare o meno una petizione è una scelta personale che va rispettata. Astenersi dal farlo può dipendere dai motivi più svariati e bisognerebbe fare un’indagine approfondita per conoscerli. A giudicare da alcuni commenti postati sui social network tra i motivi c’è anche l’atteggiamento sfavorevole di coloro che sono critici nei confronti del personale del consolato, di cui lamentano scarsa disponibilità e cortesia. Ma di qui a preferire la vendita, e perfino la chiusura, di una istituzione così importante per la collettività il passo è lungo. E, per dirla con una frase trita e ritrita, non si può buttare l’acqua sporca con tutto il bambino.
Comunque andrà a finire questa faccenda, la paventata vendita delle sedi di Consolato e Istituto di cultura rappresenta un’occasione importante e unica per la comunità italiana, ivi compreso il personale che in quelle sedi ci lavora. Quella di dimostrarsi più unita, compatta e coesa di fronte a un’emergenza che riguarda tutti.