Nella foto: Copertina del libro

Un mercato in costante ascesa, personaggi che travalicano i confini del game per approdare al cinema o sulle piattaforme video, sempre più persone che giocano in tutto il mondo, spesso insieme pur vivendo in luoghi geograficamente e culturalmente lontani. Con Francesco Toniolo abbiamo parlato di come il game permea e plasma la società

Qual è stata l’ispirazione principale per scrivere “Game Culture”?

La mia attività di insegnamento e i miei incontri con classi, docenti e genitori. In questi ultimi anni mi hanno aiutato a capire che il videogioco – per quanto sia un fenomeno globale enorme – è rimasto una sorta di bolla chiusa: chi si trova all’esterno di essa non lo capisce. Ecco perché, quando possibile, colgo sempre le occasioni utili per mostrare che cos’è davvero il mondo dei videogiochi a chi non lo conosce. Questo libro è stata un’ottima occasione per mettere su carta pensieri e riflessioni maturate tra lezioni e incontri.

Puoi descrivere il processo di ricerca che hai seguito per questo libro?

La fase di ricerca in senso stretto è stata piuttosto veloce, visto che avevo già a disposizione le fonti e i dati principali, che ho raccolto e consultato più volte durante questi ultimi anni, come materiali per i corsi universitari e vari contributi accademici. La sfida più intrigante è stata quella di condensare tutto questo materiale in un testo che fosse interessante anche per un neofita, comprensibile e al tempo stesso completo e corretto. In questo ho avuto un grande aiuto da Caterina Visco, che mi ha seguito durante la scrittura, segnalandomi quando il testo si faceva troppo tecnico.

Quali sono i principali stereotipi sui videogiochi che il tuo libro cerca di sfatare?

Ce ne sono diversi. Alcuni riguardano quello che potremmo definire lo “stereotipo del gamer”: è ancora radicata la convinzione che i videogiochi possano interessare solo i ragazzini (giovani e maschi). Eppure i dati raccontano qualcosa di ben diverso. L’età media di chi gioca ai videogiochi è superiore ai trent’anni e quasi la metà di queste persone è una donna. Un altro vecchio luogo comune, duro a morire in certi settori, è quello che i videogiochi renderebbero violenti. Dopo anni e anni di studi non è emersa nessuna correlazione stabile. Come spesso accade, basta un po’ di buon senso nell’approcciarsi ai videogiochi. Esistono prodotti per adulti che non dovrebbero esser proposti ai bambini piccoli, ma non c’è un rapporto di causa-effetto con reali comportamenti violenti. In generale, è sempre bene monitorare l’attività dei bambini, sia per evitare che passino troppo tempo coi videogiochi (l’abuso non fa mai bene ma, anche qui, siamo in un’ottica di semplice buon senso), sia per controllare che non vadano a spendere soldi senza permesso. Soprattutto molti videogiochi per telefono consentono di effettuare acquisti all’interno del gioco, e se c’è una carta di credito collegata allo smartphone è bene controllare ciò che viene speso.

Come vedi l’evoluzione del mercato dei videogiochi nei prossimi dieci anni?

È probabile che, come medium, il videogioco continuerà a crescere e a diffondersi, ma potrebbero esserci diversi cambiamenti. L’ultimo anno, per esempio, ha portato molti a riflettere sui cosiddetti “tripla A”, i blockbuster dei videogiochi. Hanno dei costi troppo elevati (si parla di centinaia di milioni) e questo li espone a grossi rischi, perché è difficile rientrare nelle spese. Le software house hanno provato a puntare su sistemi di abbonamento o altre forme di acquisto periodico, ma solo in alcuni casi hanno funzionato. Per cui è possibile che si tornerà a vedere dei progetti un po’ più contenuti, che consentano di sperimentare con un rischio più basso.

È anche bene tenere d’occhio la produzione cinese e sudcoreana. Fino a qui, molti dei videogiochi da loro prodotti erano pensati per i rispettivi mercati interni e per il pubblico dei giocatori mobile. Ma ultimamente stanno puntando a una strategia di soft power (che vada a estendere la propria area di influenza tramite prodotti culturali) con produzioni ad alto budget pensate per unire i loro gusti a quelli degli occidentali. È anche probabile che, entro una decina di anni al massimo, vedremo la nascita di quel che potremmo definire il mercato dei videogiochi per la terza età. Prodotti pensati per chi ha iniziato a videogiocare in passato (magari negli anni ’80) e che desidera esperienze complesse, stimolanti e immersive, ma non ha più la vista e i riflessi di un tempo. Vedere le console nelle case di riposo potrebbe non essere così strano, in futuro.

In che modo i videogiochi influenzano la cultura popolare e i media tradizionali?

Per molti anni, i creatori dei videogiochi hanno preso ispirazione da film, fumetti, libri e molte altre opere. È normale che avvenga sempre più spesso anche il contrario, considerando la progressiva penetrazione di alcuni videogiochi nell’immaginario collettivo. Per cui non è così strano scoprire – giusto per fare un esempio tra i tanti – che un importante premio letterario tedesco come il Deutschen Buchpreis 2023 è stato vinto da di Echtzeitalter di Tonio Schachinger: un romanzo che parla di un giocatore professionista di Age of Empires II (un famoso videogioco di strategia). Ci sono tantissime storie affascinanti, non solo all’interno dei videogiochi ma anche intorno a essi, per cui è impossibile non subirne il fascino, nel momento in cui si inizia a conoscerli. Chi non resterebbe colpito – per far un altro esempio – dalla storia vera di un ragazzo che gioca con il “ghost” del padre defunto in un videogioco di corse automobilistiche? In questo caso con “ghost” si intende la registrazione di un record precedente, che era stato registrato dal padre. Ma in questo caso quel “fantasma” interno al gioco, contro cui gareggiare per provare a superarlo, è anche un modo per sentire ancora la vicinanza di un genitore che non è più presente.

Quali sono gli usi educativi dei videogiochi che ritieni più promettenti?

Quelli in cui ci si ricorda che il videogioco ha delle caratteristiche di fondo che devono essere mantenute. Esistono diversi videogiochi educativi che sono noiosissimi. Così come alcune applicazioni della gamification (l’utilizzo di meccaniche di gioco in contesti non ludici) al mondo della scuola non hanno nulla di interessante. Bisogna sempre ricordare che si gioca perché spinti da una motivazione intrinseca, interna a quell’esperienza. È poi grazie a essa che si può veicolare un contenuto educativo. Faccio un esempio personale perché è probabilmente molto più chiaro di tanti altri discorsi. Da piccolo mi piaceva tantissimo un videogioco di strategia ambientato nel medioevo: Age of Empires II (lo stesso di cui parla Tonio Schachinger nel suo romanzo Echtzeitalter che citavo poco fa). Ho imparato parecchie cose sulla storia e a distanza di anni, quando diedi un esame di Storia Medievale all’università, ricordavo ancora tutte le principali battaglie di quel periodo storico perché erano presenti nel gioco. Ma io non giocavo a Age of Empires II per imparare la storia. Ci giocavo perché mi divertivo a schierare le mie truppe contro gli eserciti avversari.

Trovo anche molto importante il gaming intergenerazionale: giocare insieme ai propri figli è un grandissimo strumento educativo, oltre che il modo più semplice (e spesso divertente) per scoprire che cosa li appassiona e verificare che siano dei contenuti adatti a loro. E da quelle partite si possono poi far emergere tantissimi spunti di dialogo.

Puoi spiegare il concetto di metaverso e come pensi che influenzerà il futuro del gaming?

Direi che è molto più probabile il contrario, per quel che abbiamo visto finora: è il gaming a influenzare il metaverso. Esistono tantissime definizioni di “metaverso” e questo non è di aiuto, ma in linea di massima si intende una realtà virtuale in cui ci si muove con il proprio avatar, si chiacchiera con altre persone, si fa shopping, si assiste a eventi, si creano contenuti ecc. Così lo aveva pensato Neal Stephenson nel 1992, con il suo romanzo Snow Crash, quello che ha dato origine al termine. Più o meno tutto ciò che oggi il metaverso promette di fare lo si vede già in videogiochi di enorme successo come Minecraft, Roblox e Fortnite. Influencer marketing, concerti, comizi politici, ricostruzioni dell’intera foresta di Białoweża e molto altro ancora. Si è già visto tutto in questi videogiochi. Non è infatti un caso che molti li abbiano definiti dei “metaversi”, ma erano in circolazione da ben prima che il termine diventasse popolare. E parliamo di videogiochi con milioni di utenti attivi, al contrario di molti metaversi non ludici che faticano a raccogliere pubblico. Ecco perché dicevo che vedo più probabile l’influsso del gaming sul metaverso: perché il secondo può eventualmente andare a far evolvere qualcosa che già esiste e funziona.

Quali sono state le sfide più grandi che hai affrontato durante la stesura di questo libro?

Fare in modo che questa fosse una lettura istruttiva e piacevole al tempo stesso. La mia formazione e il mio lavoro mi portano a essere un po’ troppo “accademico”, ogni tanto.

Come pensi che i videogiochi possano contribuire a una maggiore comprensione e tolleranza tra culture diverse?

In molti videogiochi facciamo qualcosa in più, rispetto all’osservare come spettatori esterni la storia di un personaggio. Siamo direttamente noi a controllarlo e a scegliere che cosa dovrà fare. In una situazione del genere è possibile sviluppare una maggior empatia, soprattutto quando giochiamo nei panni di degli avatar (è il termine che si usa generalmente per definire il personaggio che controlliamo nel gioco) che hanno caratteristiche diverse dalle nostre. Esistono molti studi interessanti sulla percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri dopo esperienze videoludiche in virtual reality. In quel caso ci si cala ancor più nel personaggio, ma questo vale anche per un videogioco più “tradizionale”. Viviamo un interessante punto di incontro tra la nostra identità e quella del nostro personaggio. In un’ottica culturale, è un modo per vivere un punto di vista culturale diverso dal nostro con un coinvolgimento potenzialmente più elevato rispetto a un film.

Qual è il messaggio principale che speri i lettori traggano da “Game Culture”?

Che c’è un’enorme ricchezza e varietà nel mondo dei videogiochi. Molti discorsi che vengono fatti sul medium da persone che non lo conoscono riducono il tutto alla loro esperienza (comunque spesso indiretta) con un paio di videogiochi molto famosi. Sarebbe come dire che tutta la letteratura segue il modello del best seller del momento. Esistono videogiochi per tutti i gusti. C’è molta diversità e anche molta bellezza. Basta solo trovare il videogioco giusto. Magari un prodotto indipendente lontano dalle logiche dominanti del mercato.