Alla fine di ottobre si è chiusa la fase “celebrativa” del Sinodo universale. Abbiamo seguito su queste pagine fin dall’inizio nel 2021 le fasi del Sinodo. Antonio Autiero, professor emerito di teologia moarale a Münster ha partecipato come teologo esperto alla seconda assemblea del Sinodo e ha portato al Convegno nazionale della Delegazione la sua esperienza diretta del Sinodo e le sue riflessioni.
Un’occasione unica per noi e della quale lo ringraziamo. La sua relazione ha aperto il Convegno nazionale perché il Sinodo sulla sinodalità è l’orizzonte di senso di Chiesa al quale tutti gli altri temi e interventi hanno fatto riferimento, lo abbiamo visto anche nella pagina precedente con l’idea di comunione interculturale che il suo fondamento è nella Chiesa locale e sinodale. Cosa cambia nell’idea di Chiesa con il Concilio Vaticano II? Da una Chiesa gerarchia e dalla separazione tra ecclesia discens e ecclesia docens, si passa alla Chiesa come popolo di Dio. Il Sinodo sulla sinodalità, rimette in moto le intuizioni e le elaborazioni del Vaticano II. Queste ci consentono di ridefinire il rapporto fra Chiesa universale e Chiese locali, ovvero la dinamica fra centro e periferia e viceversa. Autiero sviluppa la sua relazione a partire da alcuni documenti, fra tutti la Lumen Gentium e il Documento finale del Sinodo, mettendo in evidenza l’ecclesiologia del Popolo di Dio e che cosa significa essere Chiesa sinodale nelle nostre realtà ecclesiali (pc). Riportiamo qui sotto l’avvio della relazione del teologo Autiero che si è sviluppata in tre punti:
1- Dal Concilio Vaticano II al Sinodo e viceversa.
2- Chiesa sinodale: aperta, partecipativa, ospitale.
3- Chiese locali per il futuro della sinodalità.
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Sinodo universale. Un cammino aperto?
L’immagine dell’aula sinodale è sicuramente sotto gli occhi di tutti. Essa ha girato nell’ultimo mese in maniera molto frequente. Ci troviamo nella cosiddetta Aula Paolo VI che fu trasformata in Aula Sinodale, dove i padri e le madri sinodali, i membri del Sinodo, più gli ospiti, trovavano spazio intorno ai diversi tavoli rotondi. Questa dei circoli minori per la discussione dei testi sinodali è diventata anche un’immagine molto interessante che ci accompagnerà durante questa mia relazione. Il titolo è “Sinodo universale” e il sottotitolo: “cammino aperto?”.
Cerchiamo di dare una risposta a questa domanda, se cioè il Sinodo è un cammino, se è un cammino aperto? La tabella di marcia del mio intervento vuole essere questa: innanzitutto mi pongo come primo problema quello di individuare qualcosa di significativo intorno al rapporto tra Concilio Vaticano II e il Sinodo. Vedremo che c’è una interazione, c’è una andata e ritorno dal Concilio al Sinodo e viceversa. Nel secondo momento mi soffermerò più a lungo sull’idea, sull’immagine di una Chiesa sinodale come traspare dal Documento finale. In un terzo momento dell’intervento si tratterà di capire, come può agire, interagire la Chiesa locale per il futuro della sinodalità.
I – Dal Concilio al Vaticano II al Sinodo e viceversa
Partiamo dal capire perché e come il Sinodo riprende e interpreta il Concilio Vaticano II e che, quindi, in un certo senso, il Sinodo è una rivitalizzazione del Concilio. Il Concilio ha riscoperto l’idea di Sinodo. Essa per altro è molto antica; noi conosciamo i sinodi nella lunga storia della Chiesa, sinodi provinciali, sinodi locali già dai primi secoli del cristianesimo. Nella tradizione della Chiesa ortodossa questa istituzione chiamata Sinodo è molto viva fino ad oggi. Nella Chiesa cattolica, come vedremo, abbiamo messo un certo oblio su questa categoria, e l’abbiamo poi riscoperta nuovamente col Vaticano II. Cosa fa il Concilio rispetto alla tematica che ci interessa qui? Genera o tenta di generare una nuova immagine di Chiesa che ruota intorno al superamento del modello con cui si pensava l’immagine di Chiesa fino a prima del Concilio e che era stata sostanzialmente codificata con il Concilio Vaticano I (1869-1873) con la Costituzione Conciliare Pastor Eternus (18 luglio 1870). Si fissava così un’immagine di Chiesa di carattere strettamente gerarchico, secondo la figura della piramide, al cui vertice c’è il Sommo Pontefice. A partire da essa, gerarchicamente si regolavano i rapporti all’interno della Chiesa. Questa Chiesa era una, santa, cattolica e apostolica, secondo le note della Chiesa che noi conosciamo dal simbolo apostolico e che sono professate fino ad oggi. Metto in evidenza il Concilio Vaticano I, l’indole gerarchica della Chiesa, la centratura intorno alla persona del Sommo Pontefice nella prerogativa di una Chiesa che è una sola. Dovunque ci si trovi sparsi per il mondo si appartiene sempre all’unica Chiesa che è la Chiesa, al cui vertice è preposto il Romano Pontefice. Romano perché la Chiesa di Roma viene ad acquisire un significato particolare che entra poi nell’idea e nella teologia del cosiddetto primato di Pietro. Ecco, quindi, questa Chiesa che è una sola, dovunque tu la incontri è sempre la stessa ed è una, Chiesa romana, Chiesa cattolica.
Evidentemente si sviluppano anche altre Chiese di confessione cattolica, sparse nel mondo, Chiese di riti orientali di diversa denominazione, dove però resta sempre affermato il primato della Chiesa di Roma. Il Concilio Vaticano II non abolisce la Chiesa cattolica, romana, che in realtà continua ancora a esistere, come anche il Papa è ancora il Sommo Pontefice. Però, il Concilio Vaticano II, nella Costituzione che in quest’anno celebra i suoi sessant’anni, Lumen Gentium (1964), parte da un altro ordine di idee. Se si sfoglia questo documento conciliare del Vaticano II, si vede che il secondo capitolo della Costituzione si intitola “Il popolo di Dio”. Dunque, non si parte più dal vertice di una piramide, ma si parte dal circuito raffigurato e riconoscibile intorno all’idea di comunione ecclesiale. Questa comunione permea l’idea di Chiesa del Concilio Vaticano II e ci consente di parlare di un modello di Chiesa comunionale. Schematicamente possiamo allora dire che abbiamo il passaggio dal Vaticano I al Vaticano II e da una ecclesiologia, da una immagine di Chiesa, di carattere gerarchico si passa a un’immagine di Chiesa di carattere comunionale. Questo cambio di paradigma è del tutto rilevante e porta con sé diverse conseguenze. Vorrei sottolinearne tre.
a) La prima è che la Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica, romana, Chiesa universale, cede il passo alla raffigurazione dell’essere Chiesa come appartenenza alla Chiesa locale, la Chiesa che sta sul posto. In tedesco usiamo la bella espressione di Ortskirchen al plurale, le Chiese che abitano un luogo. Prima si parlava preferenzialmente di Teilkirchen, per dire che le Chiese locali sono una parte dell’intero, sembrava una specie di porzione, una fetta dell’intera torta. Quando si parla di Ortskirchen si tende a mettere in evidenza il significato dell’appartenenza della Chiesa ad un determinato territorio, in un determinato popolo, in una concreta storia, in una cultura specifica, in un contesto proprio. Questo passaggio è di estremo interesse ed è appunto quello che deriva come prima conseguenza dal passaggio paradigmatico dal Vaticano I al Vaticano II, tanto è vero che questa idea di Chiesa locale viene ripresa poi dal Sinodo 2021-2024. Nel Documento finale, infatti, non si trova più la parola Chiesa universale, ma non perché non ci sia più l’attenzione a questa unità della Chiesa, quanto piuttosto perché il documento recepisce il Vaticano II e parte dalla considerazione dell’importanza delle singole Chiese locali e della comunione fra di loro (Communio Ecclesiarum, comunione fra le Chiese). E tutto questo insieme, come figura dell’unica Chiesa non va compreso nel senso di una holding, di una azienda che è presente in tutto il mondo e le cui filiali sono sparse nelle varie regioni, ma nel senso che esiste una rete, un collegamento, una comunione tra le singole Chiese che parte sempre dal territorio, cioè dal loro essere localizzate e contestualizzate.
b) Una seconda conseguenza è che la figura del Sommo Pontefice cambia di senso; essa non perde di importanza, di riconoscimento né si indebolisce il ruolo e la funzione del Papa nella Chiesa, ma essa cede il passo al fatto che lo stesso Romano Pontefice e il ministero che egli è chiamato a svolgere, è un servizio che ha a che fare proprio con la funzione di collegamento a fronte della pluralità delle singole Chiese locali. Nelle singole Chiese locali il vescovo è l’elemento di unità all’interno della sua comunità ecclesiale, in collegamento con gli altri vescovi in questa raffigurazione teologica che è il collegio episcopale. I vescovi non sono dei capi isolati all’interno della propria Chiesa, ma sono collegati fra di loro in spirito collegiale e tutti insieme sono collegati con il Romano Pontefice, che svolge il servizio di unità, da cui si genera un’immagine di Chiesa localizzata e comunionale. L’importanza del Papa non viene diminuita, anzi assume il compito di collegamento e di unità tra le Chiese, secondo quel motivo ricorrente espresso nella formula “cum Petro et sub Petro”. Si capisce, allora, che il compito del Papa non è quello di essere il vertice della piramide o, appunto, in una configurazione monarchica, il supremo e sommo pastore, ma il tessuto connettivo e il principio di unità dell’unica e intera Chiesa. Certo, il nostro linguaggio e le nostre rappresentazioni del profilo del Papa sono ancora intrise di queste raffigurazioni verticistiche e gerarchiche, ma il senso teologico del ruolo del Papa, dopo il Vaticano II è quello di un primato al servizio dell’unità delle Chiese.
c) Una terza conseguenza è che questo primato del Papa non può essere più espresso, esercitato in forma individuale, ma ha bisogno di essere espresso nell’esercizio di quella collegialità episcopale che è appunto il fondamento del rapporto tra Chiese locali. Si stabilisce così un intimo rapporto tra ministero petrino (compito del Papa) e il collegio dei vescovi. Papa Paolo VI, immediatamente dopo il Concilio, un anno dopo la promulgazione della Lumen Gentium, ritrova quella figura teologica del Sinodo che, nel primo millennio della Chiesa, aveva avuto tanta importanza e poi era stata in un certo senso messa da parte. Con la riscoperta di questa idea del Sinodo si intende istituire un organismo nuovo denominato appunto Sinodo dei vescovi. Esso è l’espressione del collegio episcopale che deve andare con il Papa, in aiuto al Papa per governare l’intera Chiesa e la comunione tra le Chiese. Il decreto istitutivo del 1965 respira ancora una certa terminologia (si parla ancora di supremo pastore romano), mostrando che si è ancora in una fase di passaggio verso una vera e propria ecclesiologia di comunione, che il Concilio ha affermata, ma che ancora sopravvivono tratti residuali di una raffigurazione piramidale, gerarchica. L’anno prossimo saranno sessant’anni della istituzione del Sinodo dei vescovi che durante questo periodo ha avuto luogo diverse volte, con argomenti e temi di volta in volta differenti (la famiglia, i sacramenti, la vita religiosa, la nuova evangelizzazione, etc). Questo del 2021-2024 era il XVI Sinodo.
La cosa interessante è che nel 2018, Papa Francesco ha ripensato l’idea di Sinodo e ha rinnovato profondamente questa struttura della vita ecclesiale (si veda la Costituzione apostolica Episcopalis Communio), rinnovando il Sinodo dei vescovi, istituito da Paolo VI nel 1965. Vanno fatte qui due osservazioni.
La prima è che certamente rimane ancora la dicitura di Sinodo dei vescovi, pur tuttavia non sono più solo i vescovi i membri effettivi del Sinodo, come era nel passato. Già con il Sinodo sulla famiglia, Papa Francesco aveva esteso la partecipazione attraverso osservatori, uditori, consulenti. Però il corpo sinodale era ancora fatto dal collegio dei vescovi, secondo un criterio di rappresentanza. La seconda osservazione che va fatta a questo riguardo è che Papa Francesco, dopo il 2018 capisce che c’è bisogno di un Sinodo che non metta a tema una problematica singola, ma che affronti l’idea stessa di sinodalità.
Ecco perché questo ultimo Sinodo 2021-2024 ha allargato il soggetto sinodale (la base dei partecipanti e degli aventi diritto al voto) e soprattutto ha esteso la tematica alla comprensione dell’essere profondo della Chiesa e della sua fondamentale indole sinodale. Si passa da sinodi che hanno importanza per temi rilevanti a un Sinodo che invece ha importanza per un tema costituente per la natura e la comprensione della Chiesa. È un modo per ripensare la costituzione stessa della Chiesa e comprendere che il soggetto ecclesiale è tutto il popolo di Dio. Infine, si sottolinea che il Sinodo non è un evento, che si celebra in un momento puntuale, ma è un processo, è un cammino. Nel documento pontificio del 2018, Papa Francesco individua anche il ritmo di questo movimento, parla di (a) una fase preparatoria dove tutto il popolo di Dio viene consultato, (b) di una fase di svolgimento dove il popolo di Dio è rappresentato attraverso le diverse categorie di soggetti nella Chiesa; ci sono vescovi, religiosi e laici e ci sono compiti e funzioni diverse, espresse anche attraverso l’opera di teologhe e teologi come consulenti dei lavori sinodali. C’è poi (c) la fase di recezione del Sinodo, nel cammino di attuazione delle linee sviluppate dall’assise sinodale e confluite nel documento finale.
Per questo è doveroso parlare di un processo e non tanto di un evento. Tale processo è e resta aperto come cammino e come compito affidato alla vitalità delle Chiese locali. Sotto questo aspetto questo Sinodo, in particolare, ha portato avanti in maniera interessante, intensiva e fruttuosa l’intuizione della Costituzione Conciliare Lumen Gentium recependo una ecclesiologia rinnovata, appunto, dove la Chiesa riconosciuta come una, santa, cattolica e apostolica, è anche sinodale. E, come spesso aggiunge Papa Francesco, essa è sinodale e misericordiosa.
II – Chiesa sinodale: aperta, partecipativa, ospitale
Diamo uno sguardo ora a questa Chiesa sinodale attraverso tre accenti che si possono cogliere attraverso i diversi rimandi al testo del documento finale. Essi si riferiscono a caratteristiche che mi sembra siano rilevanti per capire con quale volto il Sinodo ci presenta la Chiesa. Le caratteristiche che desidero sottolineare descrivono l’indole, la figura e la missione della Chiesa, la quale ci appare come una Chiesa aperta, partecipativa e ospitale. La Chiesa che oggi si presenta al mondo deve saper dire di sé e portare fuori da sé il suo carattere di apertura, di partecipazione e di ospitalità. L’analisi che vogliamo affrontare in questo secondo blocco va proprio a illustrare queste tre caratteristiche. Spero che risulti evidente, anche come da queste tre caratteristiche derivino poi conseguenze che ci pongono di fronte alla domanda su che cosa noi allora dobbiamo fare, come essere Chiesa e come dobbiamo agire per diventarlo in maniera sempre più autentica.
Facciamo un passo indietro all’Instrumentum laboris, documento uscito a luglio di quest’anno, ma il cui avvio di preparazione risale al mese di febbraio. La cosa interessante di questo documento è che i capitoli, già nei loro titoli, si servono di un linguaggio molto efficace, per molti aspetti nuovo, anche un po’ insolito nella ricorrente terminologia teologica ed ecclesiale. È un linguaggio mutuato da altre discipline, dalle scienze sociali, comportamentali, dei processi di evoluzione della società. Le parti dell’Instrumentum laboris ruotano intorno al tema delle relazioni, dei percorsi e dei luoghi. Questa scansione a tre passi, dopo una introduzione sui fondamenti della sinodalità, la ritroviamo anche nel Documento finale, sebbene con alcune varianti terminologiche. La parte Relazioni sta a dire come dare forma alla comunione. La categoria “percorsi” del primo documento diventa nel secondo “articolazione dei processi decisionali” mostra come poter assicurare che la partecipazione non sia solo astratta o addirittura fittizia, ma reale, se affidata a procedimenti che la traducano in prassi di vita ecclesiale. Terzo, i luoghi hanno a che fare con il tema fondamentale di una Chiesa che non si guarda dentro, quasi per autocompiacersi, ma che guarda fuori, facendosi così “Chiesa in uscita” secondo la ricorrente terminologia usata con tanta predilezione da Papa Francesco. Parlare di luoghi è l’avvio per pensare della Chiesa, che essa è una Chiesa in missione.
Nel documento finale tutto viene introdotto e impastato attraverso la categoria teologica della conversione. La Chiesa sinodale è una Chiesa in continuo, permanente stato di conversione. Non si tratta di una conversione di tipo morale, del tipo: “prima ero così, adesso cambio. Mi sono convertito”. Conversione è piuttosto un continuo convergere, convertirsi su livelli di interiorità e livelli di intensità che facciano da sfondo a un vero e proprio sentire ecclesiale. Allora la conversione diventa il cuore della sinodalità e con questa categoria il Documento finale fa capire l’indole aperta della Chiesa sinodale di cui stiamo parlando. Per questo le parti di questo documento finale sono denominate o ridenominate come Conversione delle Relazioni, Conversioni dei processi e Conversione dei legami. Il documento termina con un capitolo sul quale mi soffermerò alla fine del mio discorso, che ha a che fare con il tema della formazione, dove il tema viene affrontato con l’idea della formazione di un popolo di discepoli missionari.
- a) Cosa si intende dire, quando si parla di una Chiesa aperta?
Possiamo intendere tutto questo secondo due accezioni che non sono in contrasto fra di loro ma che specificano differenti passaggi. Quando diciamo che una Chiesa è aperta mettiamo innanzitutto in evidenza il suo essere affacciata sul mondo, cioè non è una Chiesa autoreferenziale. Quando la Chiesa parla di sé stessa, lo fa per mettersi in relazione con il mondo o per rimanere curvata sul suo mistero intrinseco, prigioniera all’interno del suo stesso perimetro?
Qui si potrebbe ritrovare di nuovo un legame tra Sinodo e Concilio Vaticano II, in questo caso però non tanto in riferimento alla Costituzione sulla Chiesa Lumen Gentium, quanto piuttosto in relazione alla Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes. Sta di fatto, dunque, che la prima maniera di pensare il tema della apertura è questa di essere aperta al mondo. Ora il Documento finale formula tutto questo con un termine che per alcuni è stato anche una sorpresa, in realtà è un termine che ci deve stimolare a capire significati molto importanti. Al numero 47 il documento definisce la sinodalità come “profezia sociale”. Dunque, una Chiesa aperta al mondo si propone come un generatore, una risorsa per essere elemento di trasformazione della società.
Il Sinodo prende in considerazione il fatto che noi viviamo in una società che dal punto di vista dello sfrangiamento sociale sta raggiungendo livelli inusitati rispetto al passato: crisi della democrazia, crisi della partecipazione, crisi della cosiddetta fiducia sociale, dei sistemi politici, governativi, istituzionali, legali che si frantumano, si sgretolano su tanti piani. La Chiesa capisce che questo sgretolamento mette realmente a rischio la convivenza umana. Anzi, secondo le implicazioni che Papa Francesco ha elaborato in Laudato si’ (2015) e in Fratelli tutti (2020) questo non mette soltanto a rischio la convivenza umana, ma anche il rapporto uomo e natura, la casa comune che è appunto il nostro ecosistema. Il Sinodo vuole essere una profezia, vuole essere un annuncio, uno stimolo a riempire questi buchi neri che si sono creati e a generare risorse nuove. Certo questo richiamo alla “profezia sociale” è un motivo molto bella dal punto di vista teologico ed è compito molto importante per la prassi di vita ecclesiale. Certo, andrebbe anche detto che la Chiesa, per essere annuncio profetico e incitamento a superare sgretolamento, crisi di partecipazione, crisi di rappresentazione, deve sapersi guardare anche dentro e interrogarsi sul se e sul come all’interno della Chiesa si realizzi una condotta di vita che favorisca partecipazione e coinvolgimento. Questo implica che il concetto di profezia sociale è connesso sempre con una interrogazione critica e autocritica. Dunque, una Chiesa aperta è una Chiesa che raggiunge il mondo e dice al mondo che c’è spazio per ricostruire questa sfrangiata umanità e crearne una famiglia unita e solidale.
Ma c’è anche una seconda accezione di apertura, legata al fatto che il Sinodo non abbia voluto concludere con provvedimenti concreti e definiti, cosa che alcuni hanno criticato, come incapacità o non volontà di prender decisioni di carattere normativo. Il Sinodo ha avviato un movimento di cambiamento che tocca qualcosa di radicalmente generativo, di quello che dovrà cambiare passo per passo, nell’arco lungo di un processo di rinnovamento. Il Sinodo rimane aperto, perché la fase cosiddetta attuativa del Sinodo fa parte del processo stesso di esso, secondo quanto detto sopra circa i tre momenti (consultazione preparatoria, celebrazione del momento sinodale e sua fase attuativa) . Il documento al numero 9 dice “a tutte le Chiese locali chiediamo di proseguire il loro quotidiano cammino con una metodologia sinodale”. Questo vuol dire che ora il Sinodo siamo noi, chiamati alla sua attuazione. Il documento fa riferimento alle Chiese locali che devono fare il loro lavoro, il loro cammino con metodologia sinodale. C’è ancora un altro modo per dire che il Sinodo non è finito. Esso riguarda il fatto che, questa seconda sessione del Sinodo, nell’anno 2024, partiva dalle considerazioni racchiuse nella cosiddetta Relazione di sintesi della sessione del 2023. Là i padri sinodali avevano fatto una sorte di agenda con le questioni aperte da affrontare. Alcune di queste questioni sono state riprese nella sessione del 2024 e tutte insieme sono state convogliate sul lavoro specifico di dieci gruppi di lavoro, istituiti dal Papa. Questi gruppi di lavoro, in parte già avviati, dovranno poi elaborare proposte entro giugno 2025, sulla cui base ci saranno decisioni e provvedimenti che il Papa andrà a prendere.
Fra le questioni da affrontare compaiono anche quelle trattate dal V e dal IX gruppo di lavoro, rispettivamente riguardo al problema delle forme di partecipazione femminili alla leadership della Chiesa, compreso il tema dell’ammissione al diaconato. Il IX gruppo di lavoro si occupa invece di elaborare con metodologia sinodale criteri di discernimento per le questioni dottrinali, pastorali ed etiche maggiormente controverse. Qui entra di nuovo il problema dei divorziati risposati, il problema della comunità LGBTQIA+, problemi di adattamento per alcune questioni morali di grande rilevanza anche di carattere etico-sociale, come il tema della guerra e il tema della pace.
Dunque, il Sinodo non è chiuso, non è concluso. Esso rimane un cammino aperto, sia in forza della sua recezione nelle comunità ecclesiali locali, sia anche perché altri organismi, in nome e in sinergia con il Sinodo, proseguono il lavoro nell’approfondimento delle questioni rilevanti, una sinergia che si è talvolta espressa anche in termini di tensione, come è stato per es. nel caso della questione del diaconato delle donne e in generale dell’ammissione delle donne a ruolo di leadership nella Chiesa. Questo lo si può comprendere in considerazione del paragrafo 60 del Documento finale, laddove si dice che “bisogna garantire alle donne tutte le opportunità già previste dal diritto vigente relativamente al ruolo della donna, in particolare nei luoghi dove esse restano inattuate”. Il testo aggiunge anche che non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere tali ruoli di guida. Chi immagina che ci siano delle ragioni oggettive, (qualcuno direbbe “ontologiche”, pensando che la donna è inferiore all’uomo) che impediscano ruoli di guida, non è in sintonia con l’orientamento del Sinodo ed è lontano da una corretta visione che oggi la Chiesa propone. Non ci sono ragioni che impediscano alla donna di partecipare con il ruolo di guida alla leadership della Chiesa, anche se resta la questione riguardante l’ammissione di essa al diaconato. Ma su questo punto vengono fatte due operazioni molto importanti a questo riguardo ed esse sono recepite nel testo del documento finale. Anzitutto si richiede un approfondimento, affidato appunto al V gruppo di lavoro. E inoltre si fa uso di un argomento differente, rispetto a quello usato nei pronunciamenti dei pontefici precedenti, in particolare Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Essi ribadivano che il tema dell’ammissione della donna al ministero ordinato è un tema che non trova un legittimo spazio di discussione, perché ci sarebbe un impedimento di carattere ontologico che non consente neppure al Papa di derogare. Ecco perché con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI la questione era stata chiusa. Papa Francesco intuisce prima di tutto che c’è uno spirito nuovo con cui affrontare questo tema. Anche se non ancora è chiara la sua soluzione, esso non può essere eluso. Per questo egli ammette che la questione resta aperta. Di tale apertura si fa cenno appunto nel numero 60 del documento. Il Papa ribadisce che in effetti che i tempi non sono maturi per una soluzione positiva a una soluzione positiva. Ma allora se i tempi non sono maturi, se la questione resta aperta, vuol dire che stiamo qui di fronte a uno spostamento dell’argomento dal piano ontologico, a una forma di riconoscimento che si tratti di una questione che va pensata, che ha la sua plausibilità e non può essere elusa in partenza. In altri termini, si tratta di una questione di tempi e di una questione di necessario, ulteriore discernimento.
Non va taciuto che in sede di votazione del paragrafo 60 ci siano stati 97 voti contrari e 258 a favore del testo, come era formulato. Questo dato non è irrilevante, anche se si considera che a nessun altro paragrafo del testo erano stati espressi tanti voti contrari. Come vada interpretata questa ampia presenza di voti negativi è una delicata e complessa domanda che qui lasciamo aperta.
- b) Cosa intendiamo dire, quando parliamo di una Chiesa partecipativa?
Qui faccio un sobrio accenno al fatto che nel documento sia preparatorio che finale, viene adoperata una terminologia interessante; si parla di necessità della trasparenza, della rendicontazione e della valutazione. Qui si vede, cioè, che anche nella Chiesa cresce l’esigenza di affrontare con chiarezza lo sguardo sul vissuto e la capacità di poterlo intendere e giudicare. Tale vissuto non è fatto di misteri o segreti, ma di processi di decisione e di realizzazione che devono sottostare a quei sani criteri di comprensione del nesso di cause ed effetti, tipici di ogni condotta di vita organizzata. Fuori da questa logica di trasparenza, è breve il passo verso dinamiche di esercizio di potere che si serve di occulte modalità per accentrare nelle mani di pochi i processi decisionali. Il Documento finale recepisce questa importanza della trasparenza e usa il termine usuale (mutuato dal vocabolario inglese) di accountability. Di fronte a questi accenti e questi termini per certo verso nuovi nel linguaggio ecclesiale alcuni non sono rimasti indifferenti ed hanno espresso anche difficoltà e lontananza. Sembra che incrementare questa trasparenza nei procedimenti decisionali possa far diminuire quella basilare esigenza di “dover dar conto solo a Dio”.
Il Sinodo richiama anche l’esigenza di valutazione, come fattore di trasparenza delle scelte operate. Questa attitudine deve portare la Chiesa a sapersi interrogare sulla efficacia di decisioni prese, anche a fronte dei frutti che esse hanno prodotto. La capacità di andare per vie nuove, anche nelle prassi pastorali, tenendo aperta la volontà di giudicarne l’effettiva portata a scadenza ragionevole è anche un segno di umiltà e di corrispondenza all’Indole incarnata e storica delle scelte compiute. Occorre riconoscere che in questo il Sinodo ha voluto essere tutt’altro che astratto ed ha suggerito un modo rigoroso e intenso per intervenire nei processi decisionali e di azione pastorale. Va comunque capito che alla base di uno stile di trasparenza, rendicontazione e di valutazione c’è alla fine sempre una forma che riguarda la nostra capacità fiduciale di essere membri della Chiesa, di poterci creativamente affidare e fidare gli uni degli altri. Questo è un fattore decisivo e determinante nel nostro essere Chiesa.
- c) E in che senso la Chiesa sinodale è una Chiesa ospitale?
In tutto il magistero di Papa Francesco troviamo un motivo ricorrente che mette al centro il tema dell’ospitalità della Chiesa. Essa è aperta a tutti; come “ospedale da campo”, accetta e guarisce. Il documento finale del Sinodo, nei numeri 114 e 115 si serve particolarmente della dimensione di Chiesa locale per dire che, sul posto, la Chiesa si fa casa. Non si può non vedere come in realtà cambiano le cose, se la Chiesa è una casa o se la Chiesa è una caserma, nella quale si vive intruppati. Essere casa significa invece sviluppare quegli spazi che risultano effettivamente abitabili, nei quali ci si sente accolti e circondati da relazioni che sanano. Tante volte le nostre chiese sono spazi vuoti, luoghi disabitati, proprio perché la gente fiuta in una maniera molto intuitiva ma tanto veritiera che non c’è spazio per sentirsi a casa. La ricerca di un luogo abitativo (anche di una sorta di patria interiore) ci porta a cercare fuori dalla Chiesa, se si capisce che essa non risponde alle caratteristiche di una casa ospitale.
In questo la configurazione della Chiesa locale può offrire più risorse per rendere consapevoli della capacità di ospitalità che in essa si può sperimentare. Sentirsi parte di una comunità viva, reale, legata a un territorio e a una storia aiuta molto di più che non il vago senso di appartenenza a una Chiesa universale, astratta, lontana. Si è – è vero – cittadini del mondo, ma si abita sempre in una casa riconoscibile e concreta. E questo vale anche per la coscienza di appartenenza ecclesiale, il cui sfondo è l’unica e universale Chiesa di Cristo, ma la cui concretezza è percepibile solo nel contesto proprio e specifico della Chiesa locale. Condividerne lo spazio e abitarlo come comunità rende la Chiesa accogliente, ospitale, inclusiva. In questo orizzonte il Sinodo ha prestato molta attenzione anche al tema dell’accoglienza di persone e di gruppi che solitamente vengono mantenuti al margine di essa, come per esempio le comunità LGBTQIA+.
III – Chiese locali per il futuro della sinodalità
In questo terzo e ultimo punto, vorrei anzitutto mettere in evidenza il fatto che il Sinodo si è posto la domanda sulla natura del servizio del vescovo di Roma in una Chiesa sinodale. Che cosa vuol dire in una Chiesa sinodale il ministero Petrino? Non si può nascondere il fatto che per tanto tempo la questione del primato di Pietro è stata una questione divisiva all’interno delle chiese cristiane. Opportunamente il dicastero per l’unità dei cristiani ha prodotto negli ultimi mesi un importante studio dal titolo “The Bishop of Rom” (Il Vescovo di Roma), articolando il tema in modo da poterlo rendere condivisibile anche dalle comunità cristiane non cattoliche. Questo ha trovato spazio anche nella discussione sinodale, promuovendo un necessario e salutare spirito ecumenico.
In realtà un esempio eloquente di questo modo diverso di esercitare il primato alla luce del Sinodo è stato il seguente. Il Documento finale nella premessa dice che una volta approvato, alla fine del Sinodo, esso viene dato al Papa, il quale ne tiene conto per elaborare la sua esortazione apostolica. Questa era il procedimento ordinario alla fine degli ultimi sinodi. Questa volta, Papa Francesco nel discorso finale, dopo la votazione del documento finale, sorprende l’Aula sinodale, dicendo parole molto vibranti: “Per tale ragione non intendo pubblicare una “esortazione apostolica”, basta quello che abbiamo approvato… per questo lo metto subito a disposizione di tutti, per questo ho detto che sia pubblicato. Voglio, così, riconoscere il valore del cammino sinodale compiuto, che tramite questo Documento consegno al santo popolo fedele di Dio”. Sottolineo: “basta quello che abbiamo approvato”. Poi il Papa aggiunge: “Anche il Vescovo di Roma, lo ricordo a me stesso, frequentemente, e a voi, ha bisogno di praticare l’ascolto, anzi vuole praticare l’ascolto”, quindi esercitare il suo ministero petrino in senso sinodale. Non si può non vedere in questo un gesto molto significativo e eloquente di come la Chiesa possa e debba vivere la sua “conversione sinodale”.
Cosa possiamo apprendere da questo gesto esemplare? Per prima cosa quando il Papa consegna al popolo di Dio un suo documento compie un atto di magistero. Il documento stesso è dunque magistero. Da qui la riflessione che la materia del magistero, generalmente elaborata dal Papa personalmente, questa volta risulta elaborata dal Sinodo, il quale non è più solo Sinodo dei vescovi, ma è il Sinodo della Chiesa universale. Da qui dobbiamo trarre l’insegnamento che l’elaborazione del magistero non è atto isolato del Sommo Pontefice, ma è atto ecclesiale, tenuto conto, ovviamente, della diversità di forme di magistero. Qui si capisce anche che il Sinodo non è stato solo organo ricettivo ma è stato un organo generativo di magistero. E da questo diventa ancora più visibile il legame forte e intrinseco tra dottrina e vita secondo cui non solo la dottrina detta alla vita il modo di doversi svolgere, ma la vita stessa dice che cosa è realmente la verità. Il Papa Adriano VI, vissuto tra il 1459 e il 1523, aveva intuito questo legame, parlando di una Veritas vitae all’interno del rapporto tra coscienza e verità. La verità, anche come oggetto del magistero, è sempre connessa alla vita, viene attinta da essa e la illumina. Le nostre vite valgono e valgono nella misura nella quale sono vite veritiere, sincere, partecipative, inclusive, aperte, solidali, rispettose. Decenni addietro il teologo tedesco Karl Rahner parlava della autorità di insegnamento di ogni credente (die Lehrautorität aller Gläubigen). Proprio questa autorità di insegnamento di ogni credente ha trovato nel Sinodo una chiara espressione ed è stata massimamente valorizzata, anche attraverso gesto di Papa Francesco di assumere e promulgare il documento finale del Sinodo come atto di magistero ed espressione del senso ecclesiale sinodale.
Conclusione
Vorrei alla fine dedicare una parola al tema della formazione, proprio come fa il documento finale del Sinodo, che ne parla, appunto nella sua parte conclusiva. L’importanza di tale tema va capita a partire dalla consapevolezza che anche rispetto al nostro profilo di credenti e alla nostra partecipazione alla vita ecclesiale c’è una crescita che deve essere coltivata e curata. Per vivere una Chiesa sinodale e svolgere nella comunità i diversi compiti, servizi e ministeri occorre affidarsi a percorsi formativi ben scanditi e rispondenti alle esigenze dei tempi.
Relativamente alla formazione al ministero ordinato, il paragrafo 148 del Documento finale richiama alla opportunità di una revisione della cosiddetta Ratio fundamentalis (direttive per la formazione dei seminaristi), adattandola alla configurazione sinodale della Chiesa. In gran maggioranza (315 si – 40 no) il Sinodo si è espresso per una revisione di tale Ratio.
Ma il tema della formazione non può essere limitato solo ai soggetti che accedono ai ministeri ordinati. C’è necessità di una formazione, sia di base che di approfondimento che deve essere destinata a tutti. Oggi sempre più si avverte l’importanza di una crescita in maturità e in competenze dell’intero popolo di Dio e, in esso, del laicato nella Chiesa, a lungo mantenuto in uno stato di sottomissione, proprio in conformità all’indole strettamente gerarchica della Chiesa, secondo quanto abbiamo visto sopra.
Non si tratta solo di una formazione intellettiva, da colmare con istruzione catechistica o con corsi di teologia, comunque importanti. Si tratta anche di riconoscere e coltivare capacità umane e relazionali, risorse determinanti per assumere responsabilità nella comunità e non esser solo soggetti disponibili – per lo più su base di generoso volontariato – a collaborare con i presbiteri o a sopperire alle necessità che essi non riescono a soddisfare.
Sicuramente si dovrà trattare di una formazione più integrale che congiunga insieme la crescita spirituale, la maturazione di buoni atteggiamenti, come anche la capacità di svolgere funzioni di guida della comunità. Va riconosciuto che spesso si è posto attenzione a formare dei buoni cristiani, obbedienti, accondiscendenti, passivi. La Chiesa sinodale domanda l’investimento di risorse formative adatte a creare cristiani capaci di tessere relazioni e di assumere leadership nella comunità. Il Sinodo è consapevole che su questo punto vanno colmate lacune e insufficienze che a lungo hanno caratterizzato la vita della Chiesa. Questo vale in particolare per il ruolo delle donne, come si vede nel numero 60 del documento.
Potenziando la formazione a ogni livello nella Chiesa, si rende possibile anche la creazione di una rete di partecipazione anche nell’esercizio di leadership. Questo non deve essere avvertito come un rischio di perdita di autorità, da parte di chi esercita ministeri ordinati. Al contrario, l’esercizio partecipativo al compito di guida aiuta ogni membro della comunità ecclesiale a riconoscere la specificità del proprio carisma, della propria vocazione e del proprio ministero. Non possiamo nasconderci dietro il richiamo all’indole sacramentale del ministero ordinato, per avallare un piano di squilibrio tra vescovi, presbiteri, persone consacrate e laici nella Chiesa. Anche se l’esperienza secolare di una radicata forma di clericalismo – effetto a sua volta di una impostazione “gerarchialistica” della Chiesa – rende difficile immaginare una Chiesa sinodale realmente partecipativa, non possiamo più a lungo tenere chiusi gli occhi di fronte ai guasti che essa produce. Per questo la promozione e la formazione va riferita all’intero popolo di Dio e se nella Chiesa cresce e matura in competenza e qualità una componente, questo è a vantaggio e a sprono sempre dell’intero corpo ecclesiale. Un laicato adulto, maturo, consapevole, responsabile, partecipativo, attivo fa bena anche ai ministri ordinati (vescovi, presbiteri, diaconi) a uscire dalla logica gerarchico-clericale di esercizio di potere e a comprendere la natura profonda della vocazione con la quale Dio li pone a svolgere la loro missione. Il contrario è tutto a svantaggio dell’intera Chiesa, ma è anche ragione profonda della crisi di identità in cui cadono tanti ministri ordinati, che la vedano o no.
Chiesa clericale e Chiesa sinodale sono all’antitesi l’una dell’altra. L’uscita dalla prima è condizione, causa ed effetto della promozione della seconda. In questo il Sinodo, come cammino aperto, ha dato gli spunti necessari per creare una cultura di vita ecclesiale nuova, aperta, partecipativa, accogliente e ospitale, orizzonte fecondo per la Chiesa, per poter assumere e svolgere la sua missione nel mondo.
Da dove partiamo per superare questo ostacolo del clericalismo e dare forma sinodale alla Chiesa? Certamente una via è quella di ripensare relazioni, percorsi e luoghi, a partire dagli ambiti di vita più vicini alla nostra esistenza quotidiana, dalle nostre rispettive comunità di vita ecclesiale. Se aspettiamo che una cultura della sinodalità venga dal di fuori, rischiamo di aspettare invano. Partiamo da qui, da noi, oggi, ora, da una sinodalità dal basso che ci fa immaginare nuovi cammini e ci fa sognare una nuova Chiesa.
(Testo trascritto a cura della Segreteria della Delegazione MCI e rivisto dall’autore, mantenendo il carattere di esposizione orale. Le slide sono quelle che hanno accompagnato la relazione del prof. Autiero).