Orgoglio intellettuale e arcaicità dell’anima: il demonio nel doktor Faustus di Thomas Mann
Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima ed alla costrizione, là interviene il demonio. Questa sembra essere la sintesi del famoso romanzo Doktor Faustus (1943-1947), che Thomas Mann diede alle stampe durante il lungo esilio americano (1934-1951) e che poi lo vide peregrinare per l’Europa al fine di ritrovare lo spirito tedesco delle origini, rifiutando la definitiva permanenza nella Germania occidentale ed orientale, all’epoca occupate dalle Forze Alleate. Il terribile monito dall’ormai settantenne scrittore di Lubecca – inserito all’interno dell’amaro saggio La Germania e i tedeschi del 1945, ora pubblicato da Mondadori nell’ottima traduzione di Lavinia Mazzuchetti, a conclusione della raccolta di saggi Moniti all’Europa, introdotta a Giorgio Napolitano nel 2017 – costituì la massima essenziale dell’ultimo messaggio universale da lui lanciato negli stessi anni (siamo ora nel 1945 allo scoccare della fine del Secondo Conflitto Mondiale), un testamento spirituale della sua vita artistica, prossimo stabilirsi con la moglie definitivamente a Zurigo, dove un improvviso infarto lo condurrà alla morte poco più che ottantenne il 6 agosto del 1955.
Il perché abbiamo estrapolato il pensiero posto all’inizio deriva dalla costante ricerca di una linea di interpretazione di quel romanzo senile del Mann, dopo i capolavori che lo hanno avuto protagonista della letteratura in età giovanile e matura, da Morte a Venezia del 1910; il colossale Buddenbrook del 1901 ed il non meno abissale La montagna magica del 1924, senza contare i romanzi minori, per esempio Tonio Kröger del 1903, oppure la notevole mole di saggi di storia letteraria, dove la biografia si intreccia con le figure gigantesche della Germania, da Goethe a Wagner, da Platen a Chamisso e Lessing. Attività letteraria mai disgiunta dalla riflessione politica sulle tragiche tappe del suo paese lungo il ‘900.
Infatti, Mann fin dai suoi primi racconti adattò la formula goethiana dell’unità di narrazione fra storia nazionale e storia individuale. Solo che a tale combinazione, per tutte le figure presentate – idealtipo è il prof. Aschenbach di Morte a Venezia – aveva come archetipo l’uomo tragicamente costretto – si badi subito a questo oggettivo non a caso presente nel motto sintetico posto all’inizio – dal fato a vivere una realtà complessa che a lui non aggrada (e si pensi anche a Thomas Buddenbrook, ultimo rampollo operativo della grande famiglia di Lubecca). Invece, in due sue opere (La storia di Federico II di Prussia, 1915 (per la precisione, Federico e la grande coalizione, un saggio adattato al giorno ed all’ora) ed il Doktor Faustus, i protagonisti, Federico il Grande ed Adrian Leverkühn, sono considerati nati per essere ciò che saranno, quasi una vocazione divina, uno strumento incarnato e predestinato, di cui ambedue hanno coscienza e da cui tendono a rafforzarsi ed a potenziarsi per fare ciò che la Natura esige.
Finisce qui – all’inizio del suo cammino individuale e poi poco prima della morte – il trentennio di vita più controversa di Mann, scisso fra anima borghese conservatrice – tutta presente nelle Considerazioni di un Impolitico del 1917 – e lo spirito democratico aperto alle riforme sociali della Repubblica di Weimar, fin dal discorso sulla Repubblica Tedesca del 1922 e l’Appello alla Ragione dell’ottobre 1930, quando difese l’operato del capo di governo della Repubblica di Weimar Stresemann, fino ad esporsi alle violenze non solo verbali dei nazionalsocialisti alle soglie del potere.
Se Tonio Kröger era dilaniato nello spirito fra passioni ambigue artistiche e filisteismo borghese; Federico aveva per Mann una identità assoluta rivolta alla grandezza della Prussia. E così anche per Adrian Leverkühn e Serenus Zeitblom, il biografo del primo e voce narrante del romanzo. Una doppia natura cristallizzata nello scrittore Thomas, simbolo di una Germania a forma umana, nel panorama storico dal ‘900 e che non mancò di assumere nello scrittore un medesimo sentire dal 1914 al 1940, dove la parentesi di Weimar resta il male minore rispetto al disordine politico e sociale dei primi anni del dopoguerra.
Del resto, il decennio di preparazione a questo discusso romanzo – 1930/1940 – coincideva stranamente con la catastrofica ascesa del Nazismo e l’inizio della seconda guerra mondiale. In breve la trama, caratterizzata dalla voce diaristica dell’amico fraterno: il sosia buono di Adrian, Serenus, racconta l’infanzia, la maturità e la pazzia di Adrian, che lo condurrà alla morte. Il primo convitato di pietra è Nietzsche, perché la malattia che lo porterà alla conclusione della vita è la stessa sifilide che affliggeva il filosofo di Weimar. Il contesto di questa travagliata esistenza, descritta con voce accorata e malinconica, va dalla Turingia – regione storica della Germania oggi, provincia Bavarese – all’Università di Lipsia, già culla del primo romanticismo.
Poi la passione per la musica, l’amore per Esmeralda, giovane prostituta che gli trasmette la sifilide, ricercata dal giovane musicista con coscienza e volontà. Quindi il viaggio del giovane per la Germania, lacerata dai conflitti sociali, poi diventata la tormentata Repubblica prima della conquista del potere di Hitler. Infine, l’arrivo a Palestrina, in Italia, una delle tante note autobiografiche, dove Thomas soggiornò a lungo all’inizio del’900.
Qui, incontra uno strano signore che lo spingerà a stilare un patto scellerato. Adrian gli venderà l’anima e quello in cambio gli offre fama di musicista per un quarto di secolo a venire. Fama che avrà per scotto la perdita di ogni effetto umano ed una morte gloriosa, ma giovane, dove quella sifilide gli farà da droga intellettuale. Una realtà da orgoglio superiore intellettuale che lo spingerà a comporre una musica rivoluzionaria. È la musica dodecafonica. Fuor di metafora è quella che Schönberg produce alle soglie della Grande guerra e che Adorno – il musicologo più famoso del primo dopoguerra – gli insegnerà nella forma letteraria di Ernst Kretschmer, fautore del delirio del rapporto sensitivo (peraltro unico personaggio che visse nella realtà dell’epoca, un psicopatologo che sulla scia di Jung), fautore del legame perverso fra la paranoia e la teoria psichiatrica del carattere.
Il finale del romanzo, sempre visto in punta di penna di un Serenus rassegnato sulla sorte ineluttabile dell’amico, trova un Adrian precipitato nella follia, non prima di comporre una strana melodia accattivante, un grande oratorio alla maniera di Bach, Il Lamentatio Doctoris Fausti, rivelazione musicale malcelata e degna di paranoia irreversibile, Un’arte che lo ha reso celebre e famoso, ma che non gli ha reso nella vita, tanto da perdere non solo gli affetti del pubblico, ma anche quelli dei parenti ed amici. Il povero Serenus somiglia tanto al regista teatrale che Pirandello rappresenta nei 6 personaggi in cerca d’autore, dove alla fine di quella commedia cade affranto nella sua poltrona di direzione della scena, distrutto ed affranto per quello che aveva tentato di dirigere. Non è mancato chi ha visto la chiara correlazione simbolica dietro tutta la vicenda scontata la derivazione Goethiana e la analoga connessione con le figure dell’uomo che vendette l’ombra di Chamisso, o del maestro di musica presente nei racconti di E.T.A. Hoffmann.
Il romanzo di Mann si estende però al collettivo ed alla storia. Hitler e la Germania dunque. Se la solitudine dell’artista e la sua disgraziata vita vengono nuovamente riproposti come nel Kröger; ora è rievocata la tragedia politica e morale della Germania legata allo spirito del male, cioè a quell’Hitler ed alla sua classe dirigente ammalata di sete di dominio che ha corroso ed annientato il popolo tedesco. In fondo, ritornando a quella frase dell’inizio, l’orgoglio intellettuale di Lutero e di Wagner, arricchito dalla domanda di ritorno all’ordine del bel tempo che fu e che impone nell’età contemporanea l’accettazione del destino, rappresenta un chiaro segno diabolico che genera irrazionalismo (Nietzsche) e fanatismo (Goebbels e soci). In altri termini, è l’ennesimo appello alla responsabilità del popolo tedesco e di ogni altro consesso umano che si pone al centro della storia.
Un richiamo alla ragione che Mann crede necessario per tornare in Patria e che lo sta portando, negli ultimi anni della sua vita, in ogni angolo d’Europa, sia per risollevarsi dalla decadenza che lo aveva ammaliato all’epoca delle considerazioni dell’impolitico ed alla volontà di potenza che tanto aveva osannato durante la Grande Guerra. Un falso idolo che aveva corrotto la gioventù di primo ‘900. Del resto, il modello storico di partenza, il Federico di Prussia nondimeno esaltato da Hitler; viene rivisto da Mann come un esempio di volontà oscura, tanto che il diario di Maria Teresa d’Austria non mancava di nominarlo uomo cattivo.
La sua coscienza e volontà di potenza escludeva danni di identità, oltre a certificare un elemento fisiologico dal germanesimo, vale a dire la relazione incestuosa fra predestinazione e libertà della personalità umana.
Essere incestuoso, ovvero diabolico, che Mann – accanito lettore di Lutero e Wagner, ma anche di Cervantes – approfondì durante il viaggio per mare verso New York fra il 19 maggio ed il 29 maggio del 1934. Poi sarà suo maestro un altro esule nel nuovo mondo, Paul Tillich, il teologo del socialismo cristiano e della positività negativa, ereditata da riletture di Nietzsche, cantore del male come motore creativo.
Considerazioni superbamente riprese da un attento traduttore contemporaneo, Luca Crescenzi, che nel 2016 ci ha introdotti ad una fascinosa critica del Doktor Faustus che vi invitiamo ora a leggere. Certo è però che quando un’opera così complessa raggiunge un volume così elevato di riflessione, li c’è veramente odore di genio e non puzza di diavolo.