Fra Thomas Mann e Giuseppe Antonio Borgese
Di ritorno da un lungo viaggio fra Pacifico ed Atlantico, sedevo nella biblioteca di bordo in attesa dell’ora di cena. Ad un tratto posai lo sguardo su uno scaffale impolverato e vidi un libro visibilmente usato che portava uno strano titolo, La meravigliosa storia di Peter Schlemihl, scritta da un autore a me sconosciuto di apparente lingua francese, tale Adelbert von Chamisso. Era però il von che mi faceva capire che si trattava di un franco-tedesco. Pubblicato da una ormai scomparsa casa editrice milanese, portava due illustri firme, la cura affidata al giovane Thomas Mann e la traduzione a colui che sarà fra poco suo genero, Giuseppe Antonio Borgese.
Uscito in Germania nel 1813 ed arrivato in Italia solo nel 1914, appena qualche mese prima dello scoppio della Grande Guerra. Ne era protagonista un giovanotto romantico, Peter Schlemihl, che vende al diavolo la propria ombra, in cambio di un sacchetto inesauribile di monete d’oro. Salta alla memoria di ogni lettore la chiarissima analogia col Faust di Goethe. Ma una variante non poteva mancare, cioè l’oggetto del triste baratto, qui l’ombra, lì l’anima. Peter – ma è metafora dello stesso Adelbert – crede di cedere di sé una parte secondaria, l’ombra, un accessorio dell’anima, un elemento fatuo, perché accetta la credenza che corpo ed anima sono un tutto indivisibile, mentre l’ombra gli pare superflua. In altre parole, spesso nel mondo reale facciamo compromessi sperando di avere un vantaggio futuro in società.
Poi, lungo il racconto, Peter se ne pentirà amaramente: essere senza ombra – magari senza coscienza – lo renderà un animale irresponsabile, un uomo senza personalità, un incosciente, un immorale, un reietto sociale, un isolato ed anche un perfido perché quel denaro non gli basterà mai. Infinite sono le avventure e le vicende fantasiose che gli capitano, fino a rimpiangere quella parte di sé. Una crisi infinita del suo vivere quotidiano, che lo rivede dietro le mura di un ponte pronto a gettarsi in acqua. Sembra una anticipazione di quella famosa scena della Vita è meravigliosa, il film di Capra che oggi rivediamo ogni Natale in televisione. All’improvviso, lo trattiene un misero scrittore che gli fa un dono, un paio di stivali – quelli delle 7 leghe di quella favola stupefacente che l’amico Tieck aveva creato per la gioventù prussiana di qualche anno prima – che gli consentiranno di girare il mondo e di sanare la ferita che si era dato vendendo l’ombra di sé. La cultura romantica fu subito scossa da questo racconto, che perfino Goethe lodò al punto di inserire nella seconda parte del Faust un analogo salto di qualità del suo protagonista.
Che la scoperta dell’ombra non fosse una novità letteraria ed artistica era però noto: ombre erano le anime della Commedia di Dante; ombre erano presenti nella pittura di Leonardo che a suo dire erano indispensabili per la prospettiva dal momento, che senza di esse mal si comprendono i corpi ed i volumi. E dunque la matematica delle cose rivela come la luce è provata dall’ombra. Verità letterarie ed artistiche che Chamisso rilegge nell’uomo unico e solo. Una totalità che si mutila quando si vuole vivere nel frammento del subito, del qui ed ora, anche quando nella foga di vivere senza Spirito, nel Materialismo dominante del mondo moderno, si precipita nella infelicità della coscienza. La disperazione del Dr. Jekyll sta nel vivere come Mr. Hyde. Le paure del dott. K., messo sotto processo senza capire il perché nascono dalla vendita del sé in ogni gesto quotidiano. Il senso di vuoto e la vita senza ideali di Mattia Pascal; il Visconte dimezzato di Calvino che gira senza fine per il mondo; sono tutti fratelli di Peter Schlemihl, che aveva osato mettere i paletti fra stadio estetico e stadio etico, come direbbe Kierkegaard.
Alla fine del racconto, Peter dirà: se venderete parti di Voi stessi, mentirete e reciterete sempre una parte diversa con gli altri e sarà peggio anche con Voi stessi. Questa straordinaria rivelazione – spiega Thomas Mann nell’introduzione – altro non è che la presa di coscienza del Genio, inteso come assunzione di responsabilità dell’Uomo rispetto alle lusinghe del mondo. Il diavolo non è altro che una finzione estetica, un fantasma che fa deviare l’Io verso le illusioni dall’Illuminismo e del conseguente Secolarismo. Un espediente letterario che di rincalzo per Borgese giustifica la devianza del buon borghese moderno, dimenticando i limiti del suo essere e risparmiandolo dai dubbi e dalle paure che si incontrano nell’agire quotidiano in relazione agli altri. Ma il Genio, buono e cattivo ad un tempo, ha dei limiti? Cos’è che potrebbe impedire a Peter di dominare il mondo? Neppure lo stivale delle 7 leghe di Tieck e del suo Gatto con gli stivali, gli potrà spiegare quel che regge il mondo.
Al più gli può spiegare come va di per sé il mondo, concludono amaramente i due scrittori contemporanei alla Grande Guerra ed entrambi in esilio dopo l’avvento del Nazismo. Il limite era per loro, come per Chamisso, la natura umana, di cui la scienza a stento mostra qualche luce, senza contenere del tutto quella forza oscura che la guida. Quel fato che Kant e Goethe hanno individuato nel Sentimento e nel Non-Io, che Fichte e Schelling hanno invano tentato di addomesticare, finché Hegel lo ha qualificato come Spirito, quasi per esorcizzarlo alla maniera dei classici greci. Incuriosito per questo stupefacente racconto fra Le mille ed una notte, il Faust di Goethe, l’inconscio di Freud ed il fantastico di Kafka, che ci interpella nel vivere quotidiano; mi misi a cercare ancora fra quei vecchi libri usati dalle migliaia di viaggiatori che si imbarcavano ad ora di pranzo, per sbarcare a Kiel dopo un lento viaggio da Stoccolma. E non fui più meravigliato quando rinvenni un altro libro di questo straordinario autore, il Reise um die Welt, un diario di viaggio intorno al mondo che per tra anni e mezzo (9.8.1815- 30.6.1818) lo portò dalle Canarie al Brasile fra l’Artico ed il Pacifico, dall’Alaska a San Francisco, dalle isole Sandwich in Australia e poi all’Oceano indiano, fino a doppiare il Capo di Buona Speranza ed infine a rivedere Tenerife e Copenaghen. Riandai subito all’epoca del capolavoro iniziale. Era il 1813 quando uscì a Berlino il Peter Schlemihl, quando venti di guerra napoleonica soffiavano in Prussia prima; e che ritorneranno a Parigi nella primavera del 1815 durante la marcia del Corso riprendeva verso il Belgio.
Chamisso nel suo diario, ormai a 33 anni, cominciò a temere il richiamo alle armi, lui che era stato da sempre un convinto pacifista. La soluzione alle sue paure e perplessità gliela diede l’amico del cuore Julius Hitzig, futuro suo biografo e poi anche di E.T.A. Hoffmann. Invero, il principe Max von Wied-Neuwied stava preparando un viaggio esplorativo fino in Brasile e poi al Polo Nord con dei Russi alla ricerca del mitico passaggio fra Artico e Pacifico a Nord Est. Detto fatto, Chamisso con l’aiuto dell’amico si rivolse al Consigliere di Stato August von Kotzebue a sua volta padre del capo della spedizione, Otto, perché suo figlio, era già ammiraglio della marina imperiale russa.
La famiglia viveva a Königsberg ed era commensale abituale di Immanuel Kant, il cui più famoso discepolo rappresentava l’ala più nazionalista del movimento romantico, cioè Gottlieb Fichte, appartenente alla seconda ondata nazionalista romantica, impregnata di socialismo comunitario e fautrice dello Stato Commerciale Chiuso, progenitrice per molti interpreti del Nazionalsocialismo. Sia come sia, Chamisso raccolse titoli di merito e lettere di presentazione al capitano della Marina Imperiale russa ed all’armatore della spedizione, il conte Dimitrij Romanov, nipote dello Zar Alessandro I.
Già nel giugno del 1815 è nominato naturalista per il viaggio per l’oceano Indiano e poi per le Americhe e l’Oceania. E’ il sogno del romantico pacifista, avere diretto contatto di luoghi esotici, specialmente di quei mari dal sud, come l’amico Alexander Humboldt ed il francese Lederbour, di cui sogna di ripetere le tracce. E così fu: Tenerife, Brasile, Comcietka, California, le isole Sandwich, il Capo di Buona Speranza ed il rientro a San Pietroburgo, un pellegrinaggio che gli aprì la mente ed il cuore, un patrimonio inesauribile di immagini che però vennero a coagulare nel ricordo della Patria, sanando nel suo animo la ferita morale che gli dilaniava lo spirito scosso dal timore delle armi, che da buon romantico aveva tradito disertando la difesa della Patria, quasi che le sue origini date da quel cognome francese lo avessero sottratto all’essere un tedesco purosangue.
Eppure, dal 1818 al 1838, il maturo Adelbert superò il conflitto dalla duplice nazionalità, perché proprio la professione di Direttore del giardino botanico di Berlino lo vide impegnato su due fronti, quello scientifico e quello della poesia. Si pensi alla famosa poesia La vecchia lavandaia: ho l’occhio fesso e il labbro è chiuso/ma vuol ch’io parli e non ricuso/Chiaro hai lo sguardo/rossa è la bocca/ogni tuo cenno seguir mi tocca/Ho il capo grigio, malato il cuore/ma tu sei fresco giovane fiore/Tu vuoi ch’io parli… Oh mio tormento! Solo ch’io ti guardi e son foglia al vento… Thomas Mann, ormai esule, con i nazisti per strada che lo beffeggiavano, riprese quel diario di viaggio, la poesia della vecchia ed il Peter, riscoprendo quanto fosse straziante l’eterno dramma del profugo e quanta serenità egli raggiunse, ricordando che, come Chamisso, la scelta di essere sempre un uomo cittadino del mondo.