Sotto le catene del silenzio: Un viaggio nel labirinto delle detenzioni italiane all’estero
La vicenda della maestra Ilaria Salis portata in tribunale a Budapest con “i ferri” ha suscitato indignazione e sottolineato la scarsa furbizia del governo di Orban che – se avesse evitato quelle immagini, facendo accompagnare in aula la detenuta senza catene e inutili manette – avrebbe potuto gestire il caso giudiziario senza offrire un punto debole di immagine proprio nel momento in cui aveva bisogno di “sponde” a Bruxelles.
Anche se negli Stati Uniti d’America nessuno si indigna, e gli imputati hanno anche la tuta arancione come il nostro Chico Forti, che secondo il Rappresentante speciale dell’UE per la regione del Golfo, già Ministro degli Esteri italiano, doveva essere in Italia da anni, bisogna chiedersi: dove sono i “buonisti e pronti ad accusare certi governi”, ma ovviamente non quelli orientati a sinistra?
Essendo la Salis evidentemente un’attivista di sinistra (andata volutamente in Ungheria per protestare, unitamente ad anarchici e comunisti tedeschi), si è comunque subito mobilitata la solidarietà con il coro delle accuse per il comportamento “disumano” e le condizioni nelle carceri magiare.
Il caso ha ovviamente preso così una piega tutta politica e come tale finirà, ma ha anche aperto (forse) qualche interrogativo sulla situazione di tanti altri detenuti italiani all’estero di cui purtroppo si sa poco o nulla con l’impressione che una certa politica fa sempre due pesi e due misure. Basti ricordare l’arresto di un nostro diplomatico, l’ambasciatore Bosio nel 2013 nelle Filippine, dopo l’accusa infamante di due attiviste della Ong ‘Bahay Tuluyan‘ australiana, che dopo averlo denunciato per pedofilia sono subito “scappate” in Australia.
Il governo di sinistra di allora (presidente del Consiglio Renzi) nulla ha fatto per aiutarlo. Era stato arrestato a Manila il 5 aprile 2014 – quando era a capo della sede diplomatica del Turkmenistan – dopo avere rifocillato e portato in un parco tre bambini, con il via libera dei rispettivi genitori, avendo una lunga militanza nel volontariato per bambini. Tante le falle della Farnesina nella vicenda, dalla scelta dell’avvocato al silenzio dell’ambasciata di Manila, che non si è affatto preoccupata per un collega. E lui oggi dice: “Devo riprendere il mio lavoro. Spero solo di non continuare a essere considerato un problema burocratico”.
È rientrato in Italia “dopo cinquanta giorni di carcere in condizioni disumane, quaranta giorni di ospedale e venti mesi di incubo”, dopo essere stato arrestato per traffico di esseri umani e di abuso e sfruttamento dei minori.
Dove erano allora i ben pensanti che ora giudicano disumano il fatto di una attivista di sinistra andata appositamente all’estero per protestare, così come successe durante il G20 ad Amburgo nel 2017, dove tra l’altro ci furono violenti scontri con i black block e vari arresti anche di italiani che si professarono innocenti? Non potevano starsene a casa? Una cosa è protestare in maniera pacifica, un’altra è protestare con violenza, e quindi poi debbono assumersene le responsabilità.
D’altronde, ad esempio, se sei incarcerato in un paese africano passano a volte dei mesi prima che qualcuno sappia di te e ben raramente – e comunque dopo tempi infiniti – un nostro console passerà a trovarti, anche perché (ma questo non lo sa quasi nessuno) in moltissimi paesi del mondo non ci sono nostre ambasciate o consolati, ma al più solo consoli onorari che si occupano di tutt’altro e non hanno ovviamente una immunità diplomatica.
Sono oltre duemila gli italiani detenuti all’estero, ma mentre la notifica di detenzione alle nostre autorità viene rallentata dagli oscuri meandri della burocrazia – che spesso – ad esempio – in Africa ha tempi ben peggiori dei nostri – oltre alle consuete violenze fisiche, se ti chiudono in un carcere straniero spesso ti ritrovi senza soldi, senza collegamenti, senza difesa.
In Egitto sono normali celle con 50-60 detenuti, in Venezuela i penitenziari sono di fatto controllati dalle bande interne, mentre vi sconsigliamo la visita a un carcere indiano. Altro che garanzie o assistenza diplomatica: nulla. In Ruanda le carceri sono semplicemente tendopoli circondate da filo spinato senza neppure l’acqua corrente.
L’iniquità, le violenze e la corruzione sono poi di solito endemiche e più è basso il livello di vita di un paese più i detenuti sono considerati la feccia umana, su cui tutto è permesso.
Certamente se sei ricco e te lo puoi permettere diventerai il pupillo del corrotto direttore del carcere, ma a volte – se neppure i tuoi sanno che sei in galera – è impossibile perfino collegarsi con l’esterno per chiedere aiuto.
Ricordiamo l’impegno di don Leonardo, un giovane sacerdote milanese, il quale aveva organizzato “Soccorso Icaro”, ovvero un’assistenza per gli italiani rilasciati dal carcere in Venezuela in libertà condizionale, ma obbligati a rimanere nel paese fino ai processi di solito per incidenti stradali o piccoli traffici di droga.
Spesso, soprattutto in Africa ed America Latina, lo straniero è tra l’altro accusato ed incarcerato senza alcuna colpa, ma solo per un ricatto economico in vista di una “mancia” ai giudici o ai secondini e così resti detenuto finché la famiglia non paga un vero e proprio riscatto, di solito attraverso avvocati corrotti più dei giudici, e che hanno tutto l’interesse affinché il cliente resti a lungo nel bisogno.
Forse ci si immagina che un italiano detenuto sia in qualche modo aiutato e protetto, ma pochi sanno come siano minime le nostre presenze diplomatiche “sul campo” e spesso passano settimane e mesi prima che un governo africano comunichi all’ambasciata italiana (che di solito è in un altro paese) l’avvenuto arresto di un connazionale che nel frattempo è carne da macello, purtroppo spesso in tutti i sensi.
D’altronde se una nostra ambasciata-tipo, da quelle parti ha solo due diplomatici (di solito l’ambasciatore ed un suo giovane vice) e deve coprire molti paesi contemporaneamente, difficile che almeno il “vice” possa arrivare a visitare un italiano detenuto, magari in un piccolo carcere di provincia a centinaia o migliaia di chilometri dalla nostra più vicina sede diplomatica.
Le avventure dei nostri turisti in Madagascar (paese in cui la nostra ambasciata è stata chiusa, dipendendo ora da Pretoria, in Sudafrica, che contemporaneamente “copre” sette diversi paesi in tutto il sud del continente e che al Madagascar non è neppure collegata direttamente via aerea) come quelle in altri paesi hanno spesso portato a proteste ed inascoltate interrogazioni parlamentari. Spesso è poi difficile la cooperazione all’estero tra gli stessi paesi della UE in una sorta di malcelata rivalità, mentre sarebbe molto più logico ed economico che – soprattutto nei piccoli paesi africani o asiatici – una rappresentanza unica ma efficiente dell’Unione Europea segua le vicende di tutti i cittadini europei, compresi quelli detenuti, come già in teoria dovrebbe essere, ma che nella pratica, spesso, purtroppo non avviene.
Tematiche di cui si sa poco o nulla, che raramente vanno sui giornali, ma hanno sconvolto le vite di molte famiglie quando hanno scoperto, spesso dopo lungo tempo, che il familiare scomparso era semplicemente detenuto iniziando, per cercare di liberarlo, un vero e proprio calvario, e di questi nostri connazionali chi se ne preoccupa? …. soprattutto se non sono attivisti di sinistra, per i quali invece c’è subito pronta una poltrona in parlamento ed in questo caso specifico, la proposta è di candidare la Salis all’europarlamento, come la Carola Rackete, candidata per la Die Linke, che a capo della Sea Watch che ha un equipaggio prevalentemente tedesco, ma naviga sotto bandiera olandese, ha fatto quello che tutti sanno nel nostro Paese. Nei Paesi Bassi, il più grande partito al governo, VVD, ha dichiarato che le organizzazioni non governative che prelevano consapevolmente persone senza permesso devono essere condannate per favoreggiamento della tratta di esseri umani ed il portavoce Jeroen van Wijngaarden ha dichiarato: “In realtà non sono un servizio di emergenza, ma un servizio di traghetti!”