Correva l’anno 1972. Giulio Andreotti, il 26 giugno di quell’anno, aveva appena formato un nuovo governo con l’appoggio “interno” – cioè con partecipazione al governo – di socialdemocratici e liberali e con quello “esterno” – cioè senza partecipazione al governo – dei repubblicani. Fu un governo disastroso: oltre alla fuoriuscita temporanea della lira dal “serpente economico europeo” (che condusse l’economia italiana in un periodo di enorme inflazione), Andreotti introdusse una legge per il pensionamento anticipato dei superburocrati che creò, a favore di quest’ultimi, una situazione d’indecoroso privilegio e scompaginò i ranghi della dirigenza amministrativa.
Ma non solo: ad Andreotti era venuto a mancare, a un certo punto, l’apporto “esterno” dei repubblicani. Ugo La Malfa, sacerdote dell’austerità e leader dei repubblicani, non accettava il dispendio di denaro e lo sforzo industriale richiesto dall’introduzione della tv a colori. La nuova tecnologia avrebbe spinto gli italiani ad un “consumismo sfrenato” – era questa la sua preoccupazione. E quando il ministro delle poste Giovanni Gioia dichiarò che l’introduzione del colore sarebbe avvenuta a breve scadenza, La Malfa richiamò il suo gruppo in parlamento e passò all’opposizione, provocando una crisi di governo. Andreotti, circa un anno dopo, fu costretto a scendere a compromessi. Uno dei compromessi, per coinvolgere i repubblicani, fu proprio quello di spostare a lungo termine l’introduzione della tv a colore. E così, per arrivare al colore in Italia, ci vollero altri quattro anni. Il risultato? Il fallimento dell’industria elettronica italiana, che non vendeva più televisori in bianco e nero e non poteva ancora produrre televisori a colori, e un rafforzamento dell’industria tedesca. Quando, infatti, si decise di introdurre il colore, anche sotto la spinta della riforma della Rai, gli italiani andarono a comprare i televisori a colori e nei negozi trovarono quasi solo marche “made in West Germany”.
Dunque, il divieto dello strumento d’intelligenza artificiale ChatGPT, anche se si tratta di un tema molto delicato, potrebbe diventare l’ennesimo fallimento della politica economica italiana? Oppure le motivazioni che hanno spinto l’Italia a fare questo passo sono valide? L’autorità italiana per la protezione dei dati, meglio nota come “Garante della Privacy”, ha infatti affermato che OpenAI, la società start up californiana che produce ChatGPT, abbia raccolto “illegalmente dati personali dagli utenti senza disporre di un sistema di verifica dell’età per impedire ai minori di essere esposti a materiale illecito”. Inoltre, specifica il Garante della Privacy, vi è una “assenza di una base giuridica che giustifichi la raccolta e la conservazione massiccia di dati personali”, ovvero i dati che la piattaforma utilizza per scopo di addestrare gli algoritmi. Allo stesso tempo, le autorità di regolamentazione italiane hanno chiesto a OpenAI di impedire agli utenti italiani di accedere a ChatGPT fino a quando la società non fornirà ulteriori informazioni.
Insomma: pare che si tratti di una questione di tutela della privacy e non d’impedimento dello sviluppo tecnologico. Stranamente, però, il divieto di ChatGPT in Italia è arrivato proprio in un momento in cui in tutto il mondo si discutono i pro e i contro di questa tecnologia. Il magnate Elon Musk e altri imprenditori e accademici da ogni angolo del mondo hanno addirittura firmato un appello alle aziende e ai governi, una lettera in cui si chiede una moratoria di sei mesi allo sviluppo di Gpt-4, il modello di OpenAI lanciato a metà marzo, che potrebbe provocare “grandi rischi per l’umanità”.
Se è vero, dunque, che vietare non impedisce alla tecnica di evolversi, è anche vero che il provvedimento italiano potrebbe essere un’occasione per esaminare i rischi dell’intelligenza artificiale. Se non potessimo fidarci di quello che scrive ChatGPT e dovessimo continuamente fare gli editor delle sciocchezze della chat, per discriminare le cose giuste da quelle sbagliate? Il fatto di essere un sistema socio-tecnico lo rende forse legibus solutus, sovrano unico dei contenuti che produce? Intanto anche in Germania si discute sul da farsi: ancora la maggior parte dei politici si esprimono contro ogni forma di divieto di ChatGPT, ma c’è già chi – come il ministro per il digitale Volker Wissing – propone una direttiva europea che ne regoli l’utilizzo dei dati personali. Vediamo come andrà a finire.