I manuali scolastici di storia della letteratura dei paesi occidentali individuano una corrente letteraria particolare che si era sviluppata in tutta Europea e nel Nordamerica metà dell’800, vale a dire il Realismo. Le Rivoluzioni del 1848 e la Rivoluzione industriale di inizio secolo, spinsero una frotta di romanzieri a fotografare la vita quotidiana senza alcun commento del realismo su basi morali o spirituali, ben diversamente dai colleghi romantici a cavallo del secolo illuminista.
In Italia, Giovanni Verga; in Francia, Emile Zola e in Gran Bretagna Charles Dickens, ma anche in Germania Theodore Fontane, si esercitarono a descrivere minuziose vicende in terza persona su personaggi non più borghesi, ma di estrazione contadina ed operaia, narrando la loro triste vita quotidiana di miserabile e di ultimi della società. Certamente, Manzoni e Hugo avevano anticipato la crisi morale dell’uomo europeo nel passaggio dalla società assolutista al nuovo regime borghese, ma ben presto, dopo le crisi politiche di metà ‘800, nuovi autori, da Tolstoj a Flaubert, dalla Serao a Turgenev, avevano fornito interpretazioni del mondo contemporaneo che svelavano in modo inconfutabile il nuovo sistema di vita della società capitalista, che aveva proprio nella donna, da madre, o moglie, o figlia di famiglia, di poche risorse e lavoratrici, una vittima peculiare da descrivere nella loro più autentica sofferenza quotidiana. Certamente la Effi Brest di Fontane, la Madame Bovary di Flaubert, per non dire la di poco successiva Nora di Ibsen, vivevano un dolorosa realtà di disagio soggettivo nelle rispettive realtà borghesi dei loro Paesi più ricchi del Nord Europa; ma la Nedda del Verga e la Elena degli Umiliati e offesi del giovane Dostoevskij, non differivano molto dalle colleghe occidentali, tanto più che la loro vita grama aveva aggravato il già segnato senso di dignità umana corrotto dalle consuetudini sociali di quella società maschilista.
Però, Terno secco, novella della Serao, incastonata nel più ampio saggio Il ventre di Napoli (1884), perché un espediente estetico – la vincita improvvisa al Lotto – appare l’evento che trasforma il reale e fa dei poveri rispettati benestanti. Oppure leggiamo il Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, che dopo una vita alternante di gravi vicissitudini, accoglierà nella morte prematura una soluzione finale liberatoria. Il colpo di scena infatti dà al protagonista una luce speciale e lo eleva epicamente. Ebbene, appartiene a questa diversa schiera di autori proprio Benito Pérez Galdós. Nato in una famiglia piccolo borghese a Las Palmas de Gran Canaria (1843) e dopo avere studiato storia dell’arte a Tenerife; nel 1863 raggiunse Madrid, dove studiò un po’ di legge e poi frequentò l’Ateneo, un centro culturale che a metà di quel secolo raccoglieva l’influsso critico della scapigliatura italiana e della culturaa socialista francese. Balzac, Zola, Dumas, erano i suoi maestri; ma anche le letture e traduzioni in spagnolo di Dickens, specialmente dei Quaderni postumi del circolo Pickwick.
Qui, il balzo al versante realista: prima con Trafalgar si dedicò al romanzo storico; poi dal 1882 viaggiò in Europa e riportò a Madrid le impetuose evoluzioni della economia industriale, ma anche un Viaggio in Italia (1900) gli fece scoprire le miserie di Napoli e dove conobbe la Serao, che attraverso le traduzioni di Renè Berin già aveva apprezzato lo scrittore spagnolo e che nel suo periodico la Settimana, lo aveva paragonato al Cervantes e che con molti autori dell’epoca – per esempio Tolstoj e Cechov – premevano per attribuirgli il premio Nobel.
Ma esaminiamo un romanzo che lo renderà per sempre un cardine della letteratura spagnola: Misericordia.
Scritto nel 1897 ambientato a Madrid, costituisce ancora un’ottima guida del centro storico madrileno. Si narra delle peripezie della matura Benina, donna vigorosa e buona, pronta al sacrificio per chi ama e anche per chi non la tratta umanamente. E’ una persona di servizio che è devota a Donna Francesca, una dipendente obbediente, ma anche una buona consigliera. Nei primi capitoli osserviamo un mondo di mendicanti attorno alle tante chiese, una combriccola di personaggi da corte dei miracoli, un sindacato di povera gente degna dell’Opera da tre soldi di Brecht. Da buona nobildonna, Donna Francesca disperde al gioco la sua fortuna, ma Benina per amore di serva si mette a fare la mendicante di nascosto e vivacchia con lei, che da buona aristocratica decaduta – come lo sarà il nobile povero di Di Giacomo che troverà in De Sica un imponente interprete nell’Oro di Napoli del 1954 – non cesserà di fare la splendida con l’ufficiale giudiziario alle calcagna. Benina dal canto suo, mentendo e agendo con mille artifizi, salva se stessa e la padrona accattivandosi odi e simpatie da un nugolo di personaggi bizzarri, che fanno il paio con i protagonisti delle macchiette napoletane di Scarpetta e con le tragicomiche figure di Angelo Musco. Per esempio, il conte Frasquito Ponte del Gado, un gagà caduto in miseria; oppure della famiglia di Donna Francesca, la nuora Giuliana e il figlio Antonino, che solo per un intervento fortunato ed imprevisto – che era tipico di tali novelle, come si disse sempre presente nelle opere della Serao e degli scrittori predetti, per esempio un’eredità improvvisa – ritornano dalla povera madre e licenziano su due piedi la povera serva, ingrati per le cure date alla madre quando la loro cena dipendeva dal volume di elemosine raccolte agli angoli delle strade spesso frutto dei furtarelli o truffe capitate a maldestri borghesi distratti dai furbi maneggi dei mendicanti in gradevole combutta fra loro.
Scriveva Galdos nella presentazione della seconda edizione del romanzo (1913): Io scesi nei più bassi tuguri delle strade madrilene, osservai i tipi più umili, la miseria più dolorosa, il mendicare, il vagabondare più cattivo, passando dal picaresco a me già noto per finire alla criminalità di Hugo… E perciò sono stato parte anch’io di quella vita, entrando nelle tane di miserabili e dei delinquenti della peggior risma … Mi vestivo da medico condotto entrando in locali dove Bacco e Venere erano gli unici dei del loro mondo. Vidi i più tristi spettacoli del degrado umano. Ma la fine del romanzo non è meno interessante: Galdos, rifiutava sia il determinismo senza speranze di Verga – si veda al riguardo proprio i Malavoglia, dove il destino dei pescatori di Acitrezza era segnato fin dall’inizio – sia il filologismo naturalista dell’Arabella di De Marchi, che pur nel sacrificarsi per il bene degli altri, pur nel volere rinunziare all’amore per un giovane studente, si ricompone col marito, e che però la sfinisce e la conduce alla morte perché sfiorita nel dolore interiore. Benina invece, trova una nuova vita andando a vivere con un vecchio marocchino cieco e solo. La sua grandezza sta nell’avere scelto un mondo amaro, alleviando però le disgrazie del vecchio cieco che le aveva manifestato il suo amore nelle fredde attese all’uscita dalle messe celebrate nelle tante chiese di Madrid.
E nelle ultime battute del romanzo, quando Giuliana la ritrova davanti a un ristorante, chiedendo ancora l’elemosina, quasi pentendosi del licenziamento e volendo riassumerla, Benina le oppone un modesto rifiuto: Non mi creda una santa…. Pensa ai tuoi bambini che ora non stanno tanto male come prima…. Non avere di me alcuna misericordia….. Torna dai tuoi, non peccare più… Un perdono evangelico che aveva preconizzato in un precedente romanzo del 1895 – Nazarin – dove un sacerdote pieno di spirito cristiano, ma povero, accoglieva miserabili di ogni specie. La buona borghesia di Toledo, invece di sostenerlo, lo aveva maledetto e anzi lo aveva denunziato al Vescovo. Che da buoni inquisitore, al pari di un personaggio di Dostoevskij, lo aveva addirittura destituito. Nazarin, allora si farà mendicante per svolgere la sua missione umana e per mettere in pratica la parola di Cristo. Lo seguiranno nel suo viaggio mondano una prostituta e un ladro. Tanti saranno i suoi interlocutori nei vivaci dialoghi che comporrà,dai ricchi padroni, ai poveri fedeli, fino a più feroci malfattori.
Il messaggio di quel magnifico sacerdote, un novello Francesco nella società capitalista, indurrà il grande regista Bunuel a ripeterlo in un film dall’omonimo titolo nel 1958. Come sarà questo stesso regista riporterà in auge il grande Galdos negli anni ‘60 con un altro forte richiamo al romanzo, quel Viridiana del 1961, Palma d’oro a Cannes, dove una giovane candidata novizia, in forma di donna sottomessa, a poco a poco cresce nella società borghese, emancipandosi dallo zio e dal cugino, che invano hanno tentato di diseredarla, rompendo il silenzio secolare delle donne, denunziando comunque la misoginia presente nella cultura cattolica. E fu lo stesso Buñuel a rinverdirlo nel 1970 con Tristana, tratto da un altro romanzo di Galdos del 1892. Malgrado qualche variazione di Buñuel – per esempio la vittoria di Tristana sullo zio Don Lope che aveva tentato di impedirle di amare l’artista Horacio e che l’aveva più volte molestata – lo spirito rivoluzionario dell’ultimo Galdos – morto nel 1920, sconsolato per non avere ricevuto il Nobel e ormai cieco – la sua non indifferente posizione nella graduatoria dei romanzieri europei del ‘900 era immutato, tanto che proprio la filosofa Maria Zambrano nel 1920, lo evidenziò come fonte letteraria progressista, fuori dalle letture germaniche maschiliste, per essere stato piuttosto cantore delle vite minuscole, un letterato della strada, non inferiore ai nostri Pasolini e Moravia, malgrado l’ultima edizione italiana di Misericordia risalga al lontano 1991, che andrebbe di nuovo riproposta al pubblico nell’attuale momento storico denso di problematiche sociali.