Quando la critica non comprese il messaggio di un ebreo errante dell’io
Il personaggio: un autore in cerca di sé e grande anticipatore dell’attuale quotidiano.
Il 21 ottobre del 1931, ancora nell’esercizio della professione medica di otorinolaringoiatra, nel suo studio di patologia, moriva colpito da ictus, uno dei maggiori scrittori dalla Vienna di primo ‘900, Arthur Schnitzler. Per 40 anni aveva prodotto un numero impressionante di opere letterarie, raccolte in sei volumi a Francoforte dall’editore Fischer: nel 1961 (per le novelle, circa 52) e nel 1962 per i drammi (11 lavori fra drammi, commedie e atti unici) senza contare i due romanzi: “Verso la libertà” (1908) e “Theresa, storia di una donna” (1928). Questo imponente corpo letterario va naturalmente inscritto dentro un’ampia autobiografia (“Giovinezza a Vienna”, 1862-1869) costellata da aforismi, saggi e lettere, ecc. ecc, non è ancora del tutto completato, ma ricostruibile in numerosi scritti apparentemente disparati e temporalmente distanti fra loro, un mosaico molto utile per collegare vita e pensiero. Sarebbe opera vana dare notizia completa della sua produzione, visto che non pochi critici e scrittori anche a lui contemporanei, non solo di lingua tedesca, hanno invano tentato di interpretare. Qui, non ci resta che limitarci ad alcune considerazioni unitarie su un autore a volte sicuramente scomodo, solo apparentemente frivolo, realista, impressionista, naturalista, espressionista, ironico, soprattutto legato al contesto storico – la Vienna di inizio ‘900, e del primo dopoguerra- cui il cinema si è spesso rivolto, da Max Ophüls a Kubrick e Roger Vadim, per non parlare del suo notorio legame a von Hofmannsthal e a Freud, non dimenticando Maupassant e Pirandello, tanto da risultare l’inventore singolare di un flusso di pensieri di ciascun essere umano lungo varie esperienze di vita. In altre parole, un corifeo accanito della nuova scienza psicoanalitica. Infatti, fu compagno di studi e di professione del dott. Freud, suo concittadino, ma anche suo “alter ego”, tanto da emularlo senza però ripeterlo pedissequamente, come quel “doppio perturbante” che impensieriva e attraeva il padre della psicanalisi. Eppure, il messaggio che lanciava alla società del suo tempo, non solo prescindeva dalla mitica interpretazione della crisi di inizio secolo che investiva l’elefantiaco imperialregio governo austroungarico, ma anche lasciava aperta la questione del suo dipendere – in modo autonomo o vicario – dal pensiero psicanalitico di Freud. Piuttosto, la pratica di medico era esercitata con scrupolo dal nostro autore e aveva soltanto lo scopo di ritrovare la propria identità, fino risalire alle radici ebraiche che scorrevano carsicamente nei suoi pensieri. Una ricerca alternativa all’integrazione ebraica, allora necessaria per necessità professionale, ci pare perciò il filo conduttore di questo interessantissimo autore, diviso fra volontà di rinascita e destino immutabile.
I drammi
La critica letteraria contemporanea vedeva il fenomeno, non le cause del fenomeno. Cioè considerava lo Schnitzler un abile descrittore di leggere arie viennesi, non l’ironico drammaturgo che disegnava un “girotondo” di una vita che ben conosce i limiti e i pregi legati ad un’esistenza nostalgica di un sé nascosto, ma vivo nel proprio essere sradicato da valori oggettivi sepolti ma spesso emergenti nel quotidiano. Era lo stesso sentimento che un altro intellettuale poco integrato, Erich Auerbach, dissimulava nelle sue analisi critiche di letterature fra le più apparentemente lontane e che nel suo esilio ad Istanbul qualche anno dopo in piena repressione nazista provò a riedificare . Anche Schnitzel adottava all’uopo la tecnica dei “campioni di stile”, cioè unificare sotto un comune denominatore la chiave di lettura dei frammenti di vita presenti in ogni suo scritto. Il filo rosso che collegava i punti di riferimento era un messaggio di dolore soggettivo che ambedue rinvenivano negli ebrei integrati sempre più insofferenti all’interno degli Imperi Centrali. Che Schnitzler avesse ben chiaro tale progetto espositivo emergeva dalla prima scelta del genere entro cui esporre quanto voleva annunziare nel deserto conformista in cui viveva: la drammaturgia. I lunghi anni di opere teatrali – Anatol, ciclo di tre atti unici (1893); Amore di poco conto (1895); L’eredità(1898); Al pappagallo verde (1899); Girotondo (1900); Momenti vivi (1902); Marionette (1906), Il giovane Medardo (1908); Il professor Bernhardi (1912) – rappresentavano i gradi del percorso intrapreso, cioè una “ouverture” erotica e sentimentale, dove predominava un senso borghese predatorio e disilluso, di amori presi e lasciati, con una certa lussuria sul palcoscenico che lo portò a forti critiche antisemite, sfociate a Berlino nel 1920, dove Girotondo fu tacciato di pornografia e che lo fece espellere (in piena repubblica di Weimar) dai teatri tedeschi. Seguì la scelta dialettica fra amore e morte, dove emergeva il conflitto di una donna combattuta tra il desiderio amoroso e il terrore della morte. Qui, per la prima volta, non mancarono critici positivi – per esempio, l’amico Hugo von Hofmannsthal – che vi ritrovò l’influsso delle teorie di Freud, ascendenze psicologiche che emergeranno con virulenza nelle successive novelle. Solo nel 1912, il messaggio profetico sul destino atroce antisemita degli anni ‘30 apparve nella tragicommedia Il professor Bernhardi, intrisa di ironia sull’ambiente medico, dove egli lavorava e dove regnava il tragico scontro tra un medico israelita e un sacerdote cattolico davanti al letto di un moribondo. E non è mancata la critica attuale – per esempio di Claudio Magris – che intravvede simbolicamente in quelle scene la visione di un’Europa divisa e complice del futuro mostro nazista.
Le novelle e i romanzi
A ridosso della Grande Guerra, nella vita professionale e nella vita familiare, sembrava ad Arthur di aver raggiunto un buon livello di assestamento: dopo varie convivenze non riuscite, la morte di un bimbo appena nato e la cancellazione punitive dai ruoli dei medici militari per aver messo in ridicolo la figura degli ufficiali imperiali, a seguito della novella satirica Il sottotenente Gustl del 1900; Schnitzel sposò la famosa attrice Olga Grossmann e aprì un frequentato studio specialistico al centro di Vienna. Dal lato artistico, non era riuscito a liberarsi del gaio e usurato mondo di fine secolo, quasi un “parigino”, a Vienna, un Maupassant o una Serao naturalista. Le sartine, o le signore borghesi maritate, le stesse del “girotondo” maliziose e arriviste, lo perseguitavano nella posta che riceveva e nelle richieste analoghe degli editori. Uscire dall’ironia, o dal comico quasi pornografico, lo portò alla novellistica, sperando che un colpo di stile e di obiettivo lo riportasse allo schema propositivo, quello di ritrovare l’asse identitario a teatro non pienamente identificato, o peggio respinto dal pubblico. Di qui, la ripresa del percorso critico collaudato, cioè ironia, amore e morte, per un futuro distacco da una integrazione culturale lesiva delle proprie origini e con il rischio di un collasso ideologico sociale, ma con la speranza di un futuro che restituisse stabilità ad un esule dell’io qual’era. Facciamo nostro anche qui il metodo dell’altro “ebreo errante”, di quell’Auerbach che trovò nella “letteratura universale” di Goethe la pace conclusiva del suo viaggio. Il metodo del “campione di stile” – all’interno di più di 50 racconti scritti da Morire (1895) a Sogno e destino del 1931 – ci permette di circoscrivere il ritorno al progetto ideologico suddetto proprio nella novella La signora Berta Garlan del 1901. Qui, il rifiuto del laico Arthur dell’alleanza politica fra cattolici conservatori del sindaco Lueger con le frange nazionaliste e antisemite dell’Arciduca Alberto; si ritrovavano simboleggiato nell’amore passionale di Berta Galan e nella fredda relazione con Emil, un classico profittatore delle ricchezze della signora Berta, una vedova nostalgicamente legata al marito, quasi un Francesco Giuseppe dell’età dell’oro della corte di Sissi, morta assassinata all’alba di un secolo che andava stancamente verso le tragedie che ben conosciamo. Anche qui, all’ironia del corteggiamento della vedova, all’amore e alla morte della nuova vita di coppia, seguirà il terrore di un futuro che Pirandello siglerà come un rassegnato “tutto per bene”.
Le opere conclusive
Come è noto, commedie e novelle non sortirono l’effetto sperato da Schnitzler. Il tentativo di osservare con acribia linguistica l’ebraismo, l’ antisemitismo e il sionismo con modalità progressiva, opera per opera come lo abbiamo anticipato, fu costante, specialmente in relazione ai condizionamenti sull’individuo e alle sue reazioni; operazione comprovata dal suo avvicinamento alle teorie freudiane. Fu però l’evento giudiziario e scandalistico di Berlino del dicembre 1920 a portarlo all’isolamento intellettuale e al definitivo cambio di passo della sua poetica. Malgrado che con La via verso la libertà (1908) avesse adottato un’opera narrativa più complessa, trattando esplicitamente il tema del quotidiano degli ebrei integrati nell’ambiente austriaco ormai inquinato dall’antisemitismo; tuttavia non ottenne che motti sarcastici e critiche non più velate. Con tristezza, si rimise a pubblicare novelle dove il sesso rimaneva un filo ancora conduttore più idoneo al suo sostentamento, visto che la professione privata, complice ormai la guerra, non gli poteva permettere una vita meno disagiata, con due figli che studiavano medicina prima a Berlino e poi a mantenerli a casa… E poi la polemica con Max Reinhardt che dopo lo scontro con Pirandello su Questa sera si recita a soggetto – un’opera italiana che un po’ Arthur invidiava – gli chiese i diritti della controversa commedia Girotondo. E così finì ancora una volta per cedere al mondo “politicamente corretto”. E quando la sua commedia stava per andare in scena, protestanti e cattolici opposero il loro ineluttabile veto a quello spettacolo di un “sudicio ebreo” (così parlavano “i democratici” berlinesi quando menzionavano quell’autore!). La direzione del teatro però resistette e l’esecuzione fra lezzi e frizzi avvenne comunque. Il pubblico applaudi, ma la stampa conservatrice tuonò da Berlino.
A Vienna, quando nel febbraio 1921 Schnitzler osò riproporre la “pièce”, senza alcun taglio di scene osé – rapporti sessuali appena velati; baci omosessuali, ecc. ecc. – “scoppiò una bagarre” simile a quella scatenata qualche anno prima durante l’esecuzione dei concerti di Schönberg con la sua musica dodecafonica. L’ormai sessantenne Arthur decise di autocensurarsi per non attivare più la cantilena dell’ebreo immorale, che voleva cancellare Patria, Famiglia e Religione. Proprio come farà l’ultima della sua eroine, Teresa, che nell’ultimo rilevantissimo romanzo del 1928, sarà una donna piuttosto comune, che pagherà su di sé, negli anni più bui del dopoguerra, lo smarrimento del suo essere in una società decaduta, sola e senza radici da rivendicare. In fondo, era la cronaca ordinaria di una vita grama di una donna benestante, una nobile croata, che finì in miseria dopo aver trascorso tanti anni da bambinaia. E tutto per un errore senza alcuna motivazione razionale e senza speranza di salvezza nei confronti di un mondo inchiodato da pregiudizi: cioè un figlio non voluto e che non ha mai conosciuto il padre. Un finale cecoviano che viene descritto in modo meravigliosamente ritmico, dove Teresa altro non è che il simbolo di un popolo ebreo assimilato, più schiavo che libero. L’uso già provato nel monologo in prima persona nella novella La signorina Else (1924), quasi una voce fuori campo cinematografico, che esprime lo stato d’animo della protagonista, fa dello Schnitzler un cantore moderno del senso di dolorosa estraneità del popolo ebraico da un mondo che lo perseguita, in uno dei momenti più difficili della loro terribile storia.