Nella foto: Ludwig Turek. Foto di © Bundesarchiv Bild 183 di Höhne, Erich; Pohl, Erich. Wikimedia

Ludwig Turek, dal realismo sociale al realismo magico

Nel 1961, uno dei maggiori scrittori di realismo sociale della ormai scomparsa repubblica Democratica Tedesca – la quasi dimenticata DDR- pubblicava uno sconosciuto romanzo al pubblico italiano di ieri e di oggi, “Die Familie Nagel schwarz”, vale a dire Ludwig Turek.

Novellista, sceneggiatore cinematografico e radiofonico, ma anche comandante di nave, tipografo, rappresentante di enciclopedie casa per casa è stato soprattutto un comunista della prima ora nella Germania rivoluzionaria fra il 1918 e il 1919. Fu anche un resistente antinazista, ma assalito dalla tempesta del dubbio nei primi anni ‘70, quando l’Ottavo congresso del partito comunista tedesco orientale mise in crisi il governo autoritario di Ulbricht, dando voce già nel 1973 agli intellettuali dissidenti, guidati da Wolf Biermann, espulso dal Governo Honecker per aver organizzato la protesta di ampi strati della cultura socialista cui Turek aveva aderito prima di morire nel 1975.

Passò in seconda fila dopo una lunga fila politica di militanza proletaria nella vita e nella letteratura; e malgrado la premiazione in Italia alla memoria di un suo dramma radiofonico – Prix Italia, a Venezia nel 1977, per la novellistica da cui verranno tratte, la commedia e un film del 1984, dal titolo “La variante Grunstein”. Turek ha occupato nella cultura tedesca dopo l’unificazione del 1989, un posto di scarso rilievo senza alcuna ragione, forse per le scelte critiche negli anni di Weimar e nel secondo dopoguerra che lo hanno visto sempre più perplesso rispetto a quei momenti tragici della Nazione: basti dire la tremenda sconfitta del 1918, la rivoluzione spartachista degli anni successivi, il caos di Weimar, la dittatura nazista, l’esilio e la resistenza, il ritorno in un regime nondimeno autoritario, fino alle “primavere” socialiste democratiche da Berlino, a Budapest a Praga, sofferte dagli intellettuali democratici nei decenni successivi al Muro. Fasi storiche note al pubblico alla fine degli anni ‘90 come “La caduta degli Dei”, “Good Bye, Lenin (2003) e “Le vite degli altri” (2006). Ma se andiamo a ritrovare i romanzi di Turek, questi meriterebbero eguale attenzione e rilevanza culturale, proprio oggi; in un momento di analoghe riflessioni sulla crisi sociale connessa alla nota pandemia, i cui risvolti sociali ed economici non sono dissimili a quello che l’Europa dei vincitori e dei vinti subì nei due dopoguerra del ‘900.

Ludwig Turek

Turek nacque in una povera famiglia operaia nella Sassonia imperiale e industriale a cavallo fra l’800 e il ‘900, nella cittadina di Stendhal, che l’omonimo scrittore francese aveva adottato come pseudonimo un secolo prima durante l’invasione napoleonica. Come tutti i giovani proletari dell’epoca, fra il servire ai tavoli, stampare volantini socialisti – e amare ragazze del popolo come nei racconti di Maupassant; leggeva avidamente anche Thomas Mann – Ludwig partì nel 1916 invasato di mitiche guerre di liberazione del proprio Io, come fecero tanti giovani italiani che credevano nella “lotta come lavanda della storia”, frasi blaterate a vanvera dal giovane Mann e soprattutto da noi da D’Annunzio e Mussolini.

Fuggito dagli orrori della trincea, imprigionato nel carcere militare di Spandau, aderì al partito Comunista che nella sua formazione rispondeva allo spirito rivoluzionario espressionista con la fame di crescita e di giustizia sociale egalitaria. Proprio da questo profondo esame di coscienza, nel 1920 combatté nella milizia operaia Armata Rossa Ruhr e considerava con sospetto la nascita della Repubblica. Successivamente fuggì in Russia, dove vide con i propri occhi la speranza di un mondo migliore, navigando come battelliere del Volga.

Quindi da dirigente del KPD tornerà in patria e scriverà una prima novella, “Vita e morte di mio fratello Drudo” un abbozzo autobiografico della “novella proletaria” del 1929, che trent’anni dopo sarà ridotta in un film, in ossequio alla logica propagandista dell’epoca, visto che il titolo assegnato dal regime – “Fuga nella notte” – sembrò inserirlo nel film “giallo popolare” realista modellato su “M” di Lang.

Invece, il lungo racconto di Turek prendeva le mosse dalla povertà estrema delle periferie urbane industriali di fine secolo – come nel film di Monicelli, “I compagni”, del 1963 – intriso di un umorismo sottile e ironico, vena che Turek mai più abbandonerà.

La trama della novella è semplice

In una poverissima famiglia numerosa di genitori disoccupati prima della Grande Guerra, nasce senza volontà dei genitori, un bimbo che andava a convivere con cinque fratellini e i due genitori non più giovani, la cui nuova vita si caratterizzava da un pianto ininterrotto. Per le prime 5 facciate, l’autore descriveva in prima persona una settimana infernale: i sette conviventi non dormivano, non mangiavano, non andavano a lavorare o a scuola, né la madre poteva cucinare, né il padre lavorare. Solo che con ironia non era chiaro se la vita familiare era lesa dalla mancanza di tempo per i servizi familiari; oppure per carenze connesse al coevo tempo di guerra appena scoppiata.

La turbata scelta del protagonista sarà quella di somministrare al bimbo di nascosto, un veleno e così andrà tutto per bene… E così fu, anche se non è del tutto chiaro sa la madre avesse approvato… Come non è evidente se il padre avesse collaborato alla sepolture occulta del corpicino pagando un ometto che si prestava a quelle illecite richieste e a cui il narratore, fratello degenere del piccolo Rudolf, offre addirittura da bere.

La conclusione di questo racconto – a cavallo fra il suo realismo sociale cinematografico, quello magico diffusosi in Italia nel frattempo col Bontempelli, in alternativa alle narrazioni operaiste del Bernari e alle memorie solipsiste del giovane Vittorini – vive sull’equivoco distopico che tra breve sarà il rifugio letterario di Turek.

L’alternativa

Infatti, dopo un interessante avvio creativo spezzato dagli anni di militanza nel Partito e nella Resistenza a Berlino, mentre il critico W. Herzfielde ne segnalava le ascendenze nel Dostoevskij dell’”Idiota”; la riduzione cinematografica predetta – pilotata dal Governo Democratico e dalla onnipotente Defa agenzia cinematografica di regime; lo spinse ad un versante letterario alternativo, dove il suo potente spirito caustico non era disgiunto da una certa trivialità, spesso interpretata come tale solo perché lontana dai canoni stilistici comunisti sovietici. Ecco, allora una seconda opera centrale della sua produzione, “Die goldene Kugel” (la sfera d’oro) del 1949, seguita da un romanzo analogo – “L’ultima ora” del 1950 – finalmente lo fanno uscire dallo stadio nazionale, per acquisire una dimensione europea. Con lui nasceva la “Science fiction literature” cioè la letteratura fantascientifica di lingua tedesca che invase il mondo letterario popolare perfino gli Stati Uniti della Commissione McCarthy (1952 -1954). Mentre la letteratura nordamericana – con Arthur Miller in testa – rispolverava col “Crogiolo”, vecchie storie di caccia alle streghe nella società puritana del ‘600 all’interno delle prime città borghesi coloniali del nordamerica; invece Turek con fine arguzia rappresentava il pericolo della guerra nucleare e sottolineava sarcasticamente le direttive pacifiste del Partito Comunista Tedesco, satireggiando l’apparato censorio, ma poi di fatto ne trasgrediva i veti, quando immaginava la guerra contro gli alieni come se questi fossero Comunisti tedeschi assimilati agli ex nazisti.

Scene condite da un’apparente identificazione delle forze aliene anche con gli Stati Uniti aggressori della Corea del Nord comunista e futuri nemici della DDR. Quando però ironicamente lascia intendere che il nemico poteva nascere anche all’interno del paese – e qui pensava ai moti di Berlino del 1953, visti al cinema dall’amico regista Kurt Maetzig nel film “Schlösser und Katen” nel 1956 – il Regime si accorse finalmente delle sue criticità ironiche, peraltro non minori delle frecciate lanciate dal compagno Brecht, che aveva osato contestare poco prima di morire la “colonizzazione” sovietica della Germania orientale.

Conseguenze che lo isolarono politicamente ed economicamente. Mentre da “destra”, la cultura neoliberista della Repubblica Federale lo accomunava superficialmente agli intellettuali di regime, qualificandolo un corifeo di idee astrattamente progressiste, senza considerare che Turek stava a poco a poco uscendo dalla rigida ideologia comunista opera dopo opera, alla stregua di quanto avveniva al Visconti della “Terra trema” e al Moravia dei “Racconti romeni”; la propaganda di regime comunista lo snobbava e continuava a produrre film lontani dal suo ironico spirito solitario da “Lupo della steppa”. Anzi lo catalogava più un triviale esponente del fantastico antiproletario, che non un innovatore degli schemi sociologici ormai desueti, specialmente quando con “Anna Lubizke”, nel 1952 aveva anticipato la emancipazione delle donne, la parità dei diritti, la legalizzazioni dell’aborto e il lavoro a tempo pieno di pari retribuzione. Negli ultimi anni della sua vita, avendo ben poco guadagnato da scrittore e da sceneggiatore, ripropose novelle legate ai suoi viaggi marittimi e riuscì a conquistare una piccola pensione da rappresentante ambulante di libri di fantascienza, ma continuava a scrivere temi legati alla nostalgia del suo passato di combattente per la libertà e l’uguaglianza.

Morì dimenticato nel 1975, mentre la conferenza di Helsinki dello stesso anno apriva uno squarcio verso la distensione europea e i diritti umani ideali che Turek aveva elaborato negli anni critici di dissidente nella DDR, senza mai avere abiurato ai valori di giustizia sociale che aveva difeso sulle barricate accanto agli spartachisti nel 1919. Vita che descrisse in quel radiodramma che poco sopra ricordammo e che potrebbe essere oggi riascoltato in momenti non certo ottimali per la democrazia.

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