La ricorrenza, indetta dalle Nazioni Unite più di 20 anni fa, celebra il coraggio di chi è costretto ad abbandonare il proprio Paese di provenienza
In occasione della Giornata mondiale del rifugiato è intervenuto anche il presidente Sergio Mattarella: “L’Italia contribuisce con responsabilità al dovere morale e giuridico di solidarietà, assistenza e accoglienza dei rifugiati, assicurando pieno sostegno all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e promuovendo nelle sedi europee un impegno incisivo e solidale in materia di migrazioni e asilo. L’azione a favore dei rifugiati va rafforzata ora, nei momenti di accentuata crisi, secondo quell’approccio multilaterale, del quale l’Italia è storica e convinta sostenitrice”. Ecco perché il 20 giugno da oltre 20 anni si “celebra la forza, il coraggio e la perseveranza” di milioni di persone che ogni anno sono costrette ad abbandonare il loro Paese di provenienza per chiedere protezione altrove. Secondo i dati di Cimea, Centro di Informazione su Mobilità ed Equivalenze Accademiche, ad esempio, sono oltre 900 i rifugiati che nel 2021 sono stati integrati in Italia tramite il riconoscimento del loro titolo di studio.
Solo nel 2021, il Centro specializzato nell’analisi e riconoscimento delle qualifiche ha preso in carico più di 1.300 richieste di valutazione di titoli di studio di rifugiati, a seguito delle quali ha rilasciato oltre 900 attestati di comparabilità, un documento che inquadra il diploma estero all’interno del sistema universitario italiano e consente a chi lo ottiene di proseguire il percorso di studi o immettersi nel mercato di lavoro del nostro Paese. Dovendo scappare da guerre e persecuzioni, sono tantissime le persone costrette a lasciare famiglie e abitazioni e a cercare la salvezza altrove. Lontano da casa. Da tutto.
Però in questa importante giornata arrivano anche alcuni dati preoccupanti dall’agenzia dell’Onu World Food Programme (WFP). L’agenzia ha infatti riferito che è stata costretta a ridurre notevolmente le razioni ai rifugiati nei suoi interventi. Il Direttore Esecutivo del WFP David Beasley ha spiegato: “Con la fame globale che cresce ben oltre le risorse disponibili per sfamare tutte le famiglie che hanno un bisogno disperato dell’aiuto del WFP, siamo costretti a prendere la decisione straziante di tagliare le razioni di cibo ai rifugiati che contano su di noi per sopravvivere”. E ha continuato: “Senza nuovi fondi urgenti a sostegno dei rifugiati – tra i gruppi più vulnerabili e dimenticati del mondo – molti a rischio fame saranno costretti a pagare con la vita”. In Africa in particolare la situazione è veramente drammatica. Tre quarti dei rifugiati assistiti dal WFP in Africa orientale hanno subìto questi tagli alle razioni. I più colpiti vivono in Etiopia, Kenya, Sud Sudan e Uganda. Per quanto riguarda l’Africa occidentale, negli ultimi dieci anni i livelli di fame hanno raggiunto cifre tremende. E le razioni di cibo riservate a Burkina Faso, Camerun, Ciad, Mali, Mauritania e Niger si sono ridotte considerevolmente.
Anche nell’Africa meridionale c’è una grave crisi in atto. I 500mila rifugiati assistiti nei paesi di questa zona vedono ridotte le possibilità di continuare a ricevere tale aiuto. Sono previste interruzioni imminenti in Angola, Malawi, Mozambico, Repubblica del Congo, Tanzania e Zimbabwe. Il 27 luglio 2021, nel villaggio di Taya in Sudan sono stati segnalati circa 894 nuovi arrivati Qemant fuggiti dalla zona di Gondar nella regione etiope di Amhara. Alla complessa situazione dell’Africa si aggiungono nuove problematiche. Prima fra tutte il conflitto in Ucraina, che ha spinto, in questi ultimi mesi, circa sei milioni di persone a fuggire dal paese. Una tragedia che si aggiunge alla mancata disponibilità di razioni a causa dei limitati razionamenti. In risposta a questa crisi in particolare, il WFP in Moldova ha consegnato quasi 475mila pasti caldi in 31 diverse località alle famiglie colpite dal conflitto.
I dati di Ipsos: con la guerra in Ucraina sono aumentati gli atteggiamenti positivi nei confronti dei rifugiati. Mentre il WFP auspica l’arrivo di investimenti sostenuti in programmi che promuovano l’autosufficienza delle popolazioni rifugiate, un sondaggio internazionale di Ipsos condotto in 28 paesi (tra i quali l’Italia) ha indagato le percezioni dei cittadini nei confronti dei rifugiati. Secondo lo studio, il 78% degli intervistati è d’accordo sul fatto che le persone debbano potersi rifugiare in altri paesi – compreso il proprio – per sfuggire a guerre o persecuzioni. Solo il 16% è in disaccordo. L’Italia esprime il maggiore grado di accordo: i nostri concittadini si sono infatti mostrati favorevoli all’ingresso nel proprio Paese del maggior numero di persone in cerca di asilo «per sfuggire a guerre/conflitti violenti» (66%) oppure per «disastri naturali/effetti del cambiamento climatico» (54%). La crisi in Ucraina, quindi, secondo Ipsos, ha spinto a un aumento notevole degli atteggiamenti positivi nei confronti dei rifugiati.
Mentre la Libia è una prigione da cui è sempre più difficile uscire. I numeri parlano da soli: dei circa 600.000 migranti di 44 nazionalità che si stima siano presenti in questo momento solo 40.000 (e di 9 nazionalità) sono registrate nel programma di ricollocamento dell’Unhcr. Di queste appena 1662 sono riuscite a lasciare la Libia l’anno scorso e altre 3.000 sono tornate nei Paesi d’origine con il programma di rimpatrio volontario dell’Oim.
“Occorre che i Paesi sicuri offrano protezione ai migranti intrappolati in Libia e accelerino con urgenza l’evacuazione dei più vulnerabili, rafforzando i meccanismi già esistenti e aprendo canali alternativi”, l’appello di Medici senza Frontiere che, nella Giornata mondiale del rifugiato, presenta il suo rapporto “Fuori dalla Libia”. I pochi canali legali verso Paesi sicuri messi a punto da Unhcr e Oim – denuncia Msf – “sono lenti e restrittivi” e le equipe mediche presenti in Libia da anni denunciano l’impossibilità di proteggere da abusi e violenze i migranti in Libia, fuori e dentro i centri di detenzione.