Valentina Perin, Pastoralreferentin della MCI di Francoforte Centro, torna in Italia
Dopo tredici anni nella Missione di Francoforte Centro e vent’anni in Germania, Valentina Perin torna in Italia. Ha studiato teologia presso l’ateneo dei gesuiti Sankt-Georgen di Francoforte: “Il desiderio di studiare teologia l’avevo anche in Italia, ma qui si è reso necessario, perché mi è stato detto che se avessi voluto lavorare nella chiesa e non avere solo un incarico di volontariato avrei dovuto fare la Ausbildung che comporta, nel caso nostro (Pastoralreferentin), lo studio della teologia e il praticantato.”
Tu sei Pastoralreferentin, in che cosa consiste il tuo lavoro?
Il lavoro del Pastoralreferent è ampio, è quello del Seelsorger, ci occupiamo, ci preoccupiamo delle anime delle persone che sono state affidate a noi. Siamo a disposizione per tutta una serie di bisogni, umani, sociali, anche molto pratici ed economici in alcuni casi. Accompagniamo le persone nella preparazione dei sacramenti, che poi nella maggior parte dei casi vengono amministrati dal nostro parroco. Abbiamo l’incarico affidatoci dal vescovo di annunciare la Parola, compito che dovrebbe trovare anche eco in celebrazioni che prevedono solo la liturgia della Parola (Wortgottesdienst) con anche un discorso (Ansprache), una catechesi al loro interno.
Quando hai iniziato in missione, nel 2009, eri ancora studentessa e ti affidarono subito i corsi di preparazione alla Prima comunione. Da allora ti dedichi alla catechesi dei bambini, anche in preparazione alla Cresima. Che esperienza hai fatto coi bambini? Con quale linguaggio riesci a raggiungerli?
Lavorare coi bambini e imparare a comunicare loro i contenuti della nostra fede, le cose più importanti della nostra fede, è una cosa che ho imparato nel corso di tutti questi anni trascorsi in missione. Mi ricordo quanto ero impacciata i primi anni, mi attenevo a manuali, a catechismi, magari a lezioni che qualcun altro più esperto aveva preparato precedentemente. Solo con il tempo ho imparato a liberarmi di tutto ciò e mi sono sforzata di anno in anno di preparare il mio percorso di catechismo. Sono curiosa di incontrare i bambini, di conoscerli, di apprendere il loro mondo. È importante avere flessibilità, non attenersi unicamente al programma ma essere disposti a vedere effettivamente chi ci sta dinanzi, qual è il patrimonio conoscitivo che i bambini portano e adeguarsi a quello. E poi fare soprattutto le cose con amore e per amore. Se noi comunichiamo il messaggio evangelico, che è quello dell’amore di Dio per ciascuno di noi, allora il primo passo da fare è mettersi nell’ottica di amarli. Amarli vuol dire accoglierli, accettarli per quello che sono, imparare a scherzare con loro, imparare a conoscere le loro pecche senza farli sentire mai in colpa per quello che sono, creare un ambiente sereno in cui ognuno può essere quello che è, dove si impara insieme. Dal punto di vista dei contenuti specifici riscontriamo che i bambini non hanno moltissime conoscenze, a meno che non ci siano genitori o una nonna particolarmente attenti. Devo dire comunque di aver imparato questo: il messaggio evangelico è molto più semplice di quanto noi a volte vogliamo far pensare, di quanto noi intendiamo. Anche se concettualmente i bambini mancano di tutta una serie di contenuti, moralmente, umanamente il contenuto evangelico se lo portano dentro.
Hai lavorato durante il periodo della tua formazione anche in una parrocchia tedesca. Oggi e nel futuro preti, religiose, collaboratori pastorali laici svolgeranno il loro lavoro/servizio dividendosi fra comunità di altra madrelingua e tedesca. Si tratta di una necessità o dell’opportunità di avvicinare comunità diverse e vivere la communio?
Si tratta di un tema grande, bello e problematico nello stesso tempo. Sono stata la prima a quel tempo (si trattava di un progetto pilota) a fare l’esperienza, da straniera, di lavorare parallelamente in due comunità diverse. L’anno successivo una mia collega ha fatto la stessa esperienza e nel frattempo il parroco della comunità slovacca si trova in una situazione analoga. Si può fare ed è per certi versi un’esperienza arricchente ma è un’esperienza anche estenuante perché lavorare in due culture, in due realtà linguistiche, culturali diverse implica uno sforzo immane. I miei colleghi ti confermeranno che si può fare, ma che è meglio di no. Paradossalmente figure simili alla mia o ai miei colleghi possono fungere da ponte, ma chi fa il ponte ha un ruolo che fisicamente, spiritualmente e moralmente è faticosissimo. È un problema di identità. Si possono svolgere dei servizi senza grandi difficoltà ma non ci si può mettere in gioco del tutto perché ne va della propria identità. Finché non viene compreso che deve essere mantenuta la diversità e quindi deve essere garantita l’identità della persona che è straniera, la situazione sarà difficile.
Siamo in una fase di trasformazione delle parrocchie, di riscrittura territoriale e, nella diocesi di Limburg, c’è la tendenza a superare il modello cum cura animarum e di inserire le comunità di altra madrelingua nella giurisdizione e nella pastorale della parrocchia tedesca. Come vedi le due opzioni a partire dalla tua esperienza? Esiste una terza strada?
Non credo che ci siano solo due alternative, ma nemmeno solo tre. È un momento particolare e mi rendo conto di dover stare attenta a non cadere nell’errore di difendere io stessa uno status quo perché è comodo e va bene. Quando ci sono degli incontri manifesto la mia opinione: il cambiamento sarà necessario ma questo processo non può essere unilaterale soltanto delle comunità di altra madrelingua; né tantomeno potrà essere un cambiamento soltanto strutturale perché se si cambia la struttura prima si deve cambiare la testa della gente. Affinché queste trasformazioni avvengano e siano proficue deve attuarsi un cambiamento nel modo di essere delle comunità tedesche. Non si può inserire una comunità di altra madrelingua nel territorio di una parrocchia tedesca senza che la parrocchia tedesca stessa si modifichi, si apra, sbocci, si preoccupi anche di quest’altra realtà che improvvisamente dovrebbe diventare loro responsabilità. Noi ci dimentichiamo una cosa che nel Vangelo è fondamentale, ossia che il comandamento dell’amore di Gesù prevede la reciprocità: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi. La reciprocità comporta due parti che si guardano in faccia e ci sono l’uno per l’altro, che l’un per l’altro son pronti a dare la vita. Se non c’è questa dinamica umana all’interno delle nostre comunità non si concluderà nulla.
Dopo vent’anni in Germania, tredici anni in missione ritorni in Italia. Che cosa ha portato questa svolta nella tua vita?
Credo che ci sia una vocazione alla felicità, alla gioia: Dio ci vuole felici e questo significa prendere in mano ogni giorno la vita in dialogo con Lui, consapevoli della sua vicinanza e del suo accompagnamento, consapevoli anche del fatto che la nostra vita non è tracciata una volta per sempre. La mia decisione di rientrare in Italia è dettata soprattutto da un mutamento di circostanze personali, che mi portano a decidere che ora la mia vita debba proseguire altrove. C’è una frase di Helder Câmara, vescovo latinoamericano della teologia della Liberazione, che mi accompagna da sempre. È una frase che implica grande coraggio e che non sempre ci si deve affrettare a mettere in pratica: “Quando la tua nave, ancorata da molto tempo nel porto, dà la falsa impressione di essere una casa, quando la tua nave comincia a mettere radici nelle acque stagnanti del molo, prendi il largo. È necessario salvaguardare a ogni prezzo l’animo viaggiante della tua barca e il tuo animo di pellegrino.” Quando nella vita giunge la consapevolezza che là dove sei, non hai più la possibilità di crescere interiormente, umanamente, quando ti accorgi che le risorse sono finite o scarse, allora non devi avere paura di mollare gli ormeggi e prendere di nuovo il largo perché è al largo che le cose si muovono, che ci sono i venti e nuovi orizzonti. Quindi non ho paura di venir meno a una mia inclinazione al bene, all’ annuncio del Vangelo, al continuare a crescere nel cammino di fede, perché tutto questo bussa ogni giorno alla porta di casa, sotto forme diverse e la possibilità di rispondervi c’è sempre. Vado semplicemente a scoprire altrove la felicità che Dio mi ha promesso.