Per un diritto contro tutte le dittature
Il recentissimo dibattito sul significato del 25 aprile a 77 anni dalla fine del regime totalitario in Italia, coincidente quasi con la fine del secondo conflitto mondiale, da qualche anno si ripete allo stesso modo, ricalcando la polemica politica e storica sulla resistenza in Italia alle forze nazifasciste. Dibattito peraltro mai sopito in Germania, dove risulta accomunato alla ricerca e alla punizione dei criminali colpevoli della Shoah ebraica. Campioni difensori della lotta al totalitarismo fascista e del pari dedicato per la vita alla caccia del più efferato massacro razziale che si ricordi, furono due giuristi, un pubblico ministero – Fritz Bauer – e un professore accademico, Piero Calamandrei.
Piero Calamandrei
Piero, in particolare, avvocato civilista a Firenze era un maestro della procedura civile a Messina; poi durante il biennio rosso – 1918 e 1919 dove cominciò ad avere simpatie socialiste, fu valutato da Alfredo Rocco – proprio quello del Codice penale del 1930, di chiara marca fascista – che lo fece nominare ordinario di diritto processuale civile a Firenze, carica che dal 1924 al 1956 ricoprì fino alla morte. Come tutte le classi dirigenti di inizio secolo, fu ufficiale nella Grande Guerra, ma in quel biennio successivo alla vittoria soffrì tutti i disaggi della classe media causati dall’inflazione, senza però cedere alle lusinghe tiranniche fasciste. La sua partecipazione alla Commissione parlamentare del 1924, per la riforma dei codici di procedura e di rito civile e penale, fu solo un tributo alla sua passione per le leggi e per la giustizia, mai un atto servile di adesione e meno che mai di mera obbedienza.
Dopo il delitto Matteotti, coi fratelli Rosselli, Giovanni Amendola e Ernesto Rossi, fu redattore di diverse testate di opposizione, aderì ai movimenti aventiniani antifascista, firmò il Manifesto antiregime di Croce, diede vita al giornale clandestino Non mollare, piattaforma da cui discenderà negli anni ‘30 e ‘40 il partito d’Azione, espressione politica di opposizione non solo eroica al fascismo. E quando venne ora di firmare fedeltà allo Stato, identificatosi col Regime politico – dittatoriale, la tempesta del dubbio lo assalì. Sfuggito per un pelo allo persecuzioni del 1925-1926 connesse al nuovo regime parlamentare, che fare? Raggiungere gli amici Rosselli all’estero? Fare la fine di Gramsci in carcere? Tacere come Croce nel suo bello studio a Napoli? Decise di stare nel Regime, ma non con il Regime.
Era un professore di diritto e dunque decise di insegnare la giustizia, non quella alta, ma quella quotidiana, quella bassa, quella per i giovani da formare nelle aule dei tribunali. Così solo combatteva, e non solo in silenzio, il Regime. E negli anni ‘30 consentì a redigere lo schema del nuovo processo civile con gli altri professori della commissione di cui sopra, stavolta sotto la direzione di Dino Grandi, che evidentemente non era un fascista tutto libretto e moschetto. Con Redenti e Carnelutti elaborò le linee guida del Codice che per buona parte ci regge tuttora. In tutte le osservazioni critiche all’emanando Codice, perfino in alcune sue norme, il suo senso di giustizia, di tutela della parte debole, di resistenza al potere, emergono con forza, come si può ancora leggere nelle sue opere giuridiche raccolte in 10 volumi a Napoli, pubblicate negli anni ‘50 dagli stessi editori di Croce.
Ma gli scritti di filosofia del diritto, esprimono titoli e temi che tradiscono la sua fede democratica e libertaria, per esempio Fede nel diritto, Costruire la democrazia per la scuola, lo Stato siamo noi, Non c’è libertà senza legalità. In realtà, oggi si è molto attenuata la polemica del dopoguerra su suoi rapporti con Grandi, sul presupposto che l’amicizia col ministro fasciata tendeva a limitare il più possibile il danno di codificare un diritto nazionalfascista, come avvenne in Germania, a seguito della giuridificazione nazista favorita dallo Schmitt. Piuttosto, benché avesse firmato fedeltà nel 1931, il Casellario politico Centrale del Ministero della giustizia lo vede iscritto fin da 1931 stesso senza contare non solo i rapporti dell’Ovra sulla sua attività professionale, ma anche il suo impegno contro la liberazione di Albert Kesselring, comandante delle forze armate tedesche in Italia, processato e condannato a morte per la strage di Marzabotto e delle Fosse Ardeatine.
Piero si oppose da deputato del partito d’Azione e poi socialista democratico sia nella commutazione dalla pena di morte in ergastolo e addirittura per la rimessione in libertà per motivi di salute. Dimostrò che si era trattato di un falso e da ciò partì la sua ultima battaglia per l’’attuazione della Costituzione Repubblicana. Oggi restano di lui un Codice di Procedura Civile insuperabile sotto il profilo del riconoscimento dei diritti prevaricati dai più forti, un impegno politico a favore dei giovani giuristi e soprattutto di antifascista nel primo decennio del dopo guerra, quando la Costituzione repubblicana del 1948 restò per tutti gli anni ‘50 quasi lettera morta. Nondimeno, l’impegno professionale per le libertà civili emerge con chiarezza nella vicenda di Danilo Dolci, intellettuale comunista perseguitato dalla mafia delle campagne palermitane con la connivenza delle politiche locali e di qualche magistrato ancora legato al potere fascista. La sua difesa in quel processo andrebbe letta nelle scuole ogni 25 aprile, oggi stucchevolmente celebrato senza comprendere le ragioni che ne fissarono l’istituzione.
Fritz Bauer
E la pari figura di Fritz Bauer dovrebbe essere ricordata non solo in Germania per l’impegno professionale analogo nella ricerca di criminali nazisti proprio in quegli anni fra l’occupazione alleata della Germania e il muro di Berlino nel 1961. Ebreo di Stoccarda, laureatosi nella università di Heidelberg e Monaco di Baviera, dove conseguì anche la laurea in economia, fra il 1920 e il 1945, lottò contro le forze naziste in difesa della Repubblica di Weimar.
Come Piero, Fritz non fa mai comunista, ma da ardente socialdemocratico difese, anche con le armi in pugno, le libertà civili repubblicane. Fondò società segrete antinaziste, fu perseguitato e incarcerato nel campo di Heuberg, da dove – appena rilasciato, perché gli si riconobbe la forte intelligenza professionale – fuggì in Danimarca e poi in Svezia. Qui divenne redattore del giornale socialista all’estero diretto da Willy Brandt. Nel 1949, appena tornato in Patria in seguito alla istituzione della Repubblica Federale Tedesca, fu presto nominato Presidente del tribunale centrale della Bassa Sassonia e poi Capo della Procura dell’Assia, con sede centrale a Francoforte (1956).
Il suo obiettivo principale, nel decennio fra il 1958 e il 1968, anno della sua morte, fu quello di rintracciare, processare e far condannare, non solo i gerarchi fascisti, ma anche quello di catturare e fare punire quelli fra loro colpevoli di atrocità; primi fra tutti coloro che concepirono e attuarono la Shoah ebraica. Infatti, il suo nome e la sua tenacia investigativa venne fuori nel famoso processo di Francoforte, per i criminali di Auschwitz, fra il 1963 e il 1965. Già alcun anni prima, però, Fritz aveva tentato un obiettivo politico morale da raggiungere la celebrazione in Germania dei processi a carico degli appartenenti al Nazismo macchiatisi di orrendi delitti. L’opposizione interna e internazionale avevano fatto di tutto per respingere questa ipotesi.
In piena guerra fredda – diremmo a un passo da quella calda proprio nella Germania divisa dal reticolato di ferro fra le zone invase dai paesi occidentali e dall’Unione Sovietica, presto divenuto un Muro – con i governi di ambedue le Repubbliche restie a un processo che riaprisse vecchi conflitti del primo dopoguerra e che avevano riassorbito la classe dirigente totalitarista dopo il Processo di Norimberga; con la stessa erezione dello stato ebraico che voleva l’appalto di quei processi, temendone l’insabbiamento se aperto in Germania; il progetto di Fritz, uomo moralmente integerrimo e che voleva a tutti i costi che le colpe della Germania venissero pagate a suon di sentenze della patria di Goethe e Beethoven, non riusciva a decollare.
Il caso di Adolf Eichmann, il funzionario banale e macchina per uccidere ad Auschwitz – come lo classificò Hannah Arendt – gli sfuggì di mano: questi venne processato e giustiziato in Israele, dopo la drammatica e illecita cattura da parte di agenti israeliani che violarono ogni diritto internazionale pur di portarlo alla sbarra nel loro Paese e lì di farlo condannare e giustiziare nel 1962.
Come Piero, Fritz non demorse
Malgrado lo scacco di Eichmann, riuscì a Francoforte a tenere l’accusa contro 22 gerarchi non minori del Boia di Auschwitz, circostanza che in un primo momento non lo rese molto favorevole nel gradimento dell’opinione pubblica. E al fine di evitare superficiali giudizi di carrierismo politico, negli anni fra il 1965 e il 1968 si batté a fianco di organizzazioni pacifiste per i diritti dell’uomo. Fondò a Berlino nel 1961, in risposta al mero truce regime, parastalinista della DDR e in parallelo al Muro, l’Unione Umanista, che poi col suo capitale testamentario, diverrà l’Istituto Fritz Bauer, ente no profit dedito alla memoria della Shoah e di tutte le violazioni dei diritti civili.
La creazione di un analogo istituto – magari nella città di Cuneo, Montepulciano, Sant’Agnese, Sant’Anna di Stazzema, di Aosta, a Borgo S. Lorenzo e alle Fosse Ardeatine, dove già si trovano le lapidi in memoria delle stragi autorizzate da Kesselring, sul testo dettato da Calamandrei – renderebbe di nuovo lustro a questo grande difensore dei diritti civili e delle libertà costituzionali, oggi gravemente villipese, come quando a Trappeto levò la sua voce in difesa di Danilo Dolci e di quanti oggi lottano per la sicurezza e sulla giustizia sul posto di lavoro.