Pio La Torre, il volto della politica onesta che si contrappose alla mafia
L’antimafia non è una semplice moda o soltanto un’ottima occasione per tirare fuori dai cassetti delle scrivanie i bei discorsi sulla legalità. L’antimafia, quella vera, è una ragione d’essere, un modo di vedere le cose, una lotta. È, insomma, il non poter accettare le condizioni di palese ingiustizia.
Ebbene: Pio La Torre è antimafia. L’intera vita di La Torre è stata all’insegna della legalità. Fin da ragazzino aveva conosciuto la mafia, nella contrada di Altarello di Baida, alla periferia di Palermo, dove era nato e cresciuto. Altarello era una zona ad alta densità mafiosa, controllata da boss noti e rispettati. Aveva vent’anni quando la mafia bruciò la porta della piccola stalla, dove suo padre allevava il vitello da vendere al mercato. Un avvertimento chiaro, perché Pio apriva sezioni del partito comunista (Pci) e diffondeva «l’Unità» nella borgata. E a suo padre Filippo avevano detto: «Pio è un ragazzo sveglio, intelligente, perché non pensa a studiare e se proprio gli piace la politica, gli possiamo presentare chi lo può aiutare a fare carriera».
La mafia, intanto, nel totale silenzio della classe politica, uccideva sindacalisti, assaltava e distruggeva sedi di partito e del sindacato e faceva stragi, come a Portella della Ginestra: nel maggio del ‘47 furono uccise undici persone e ventisette vennero ferite, insanguinando la vallata sotto il monte Pizzuta. Nel marzo del ’50 Pio La Torre, dopo una manifestazione a Bisacquino, viene arrestato: resterà in carcere per quasi un anno e mezzo. La sua (presunta) colpa? Quella di avere aggredito un poliziotto. Durante la sua permanenza in carcere nasce suo figlio Filippo, che potrà abbracciare soltanto dopo la scarcerazione. L’accusa della procura non aveva convinto i giudici: troppe contraddizioni e i testimoni presentati dal procuratore erano poco convincenti.
Negli anni ’50 Pio La Torre viene eletto al Consiglio comunale di Palermo: si batte per il diritto all’acqua, che era una risorsa strategica controllata dalla mafia. Si batte anche per il piano regolatore generale che avrebbe permesso una volta approvato la ricostruzione e uno sviluppo urbanistico ordinato della città. A soli trent’anni, denuncia il «sacco di Palermo» e l’operato del sindaco Salvo Lima e dell’assessore ai Lavori pubblici Vito Ciancimino.
La sua esperienza in Sicilia, le sue battaglie condivise con la moglie Giuseppina Zacco, confluiscono nella relazione di minoranza della prima Commissione parlamentare antimafia del 1976. Con il giudice Cesare Terranova, allora parlamentare della Sinistra indipendente, e che sarà assassinato dalla mafia nel ’79, La Torre architetta un nuovo spazio normativo per combattere le mafie. Già nel 1972 La Torre era entrato a far parte della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. La Commissione era stata istituita nel 1962, durante la prima guerra di mafia. La Torre redige la relazione di minoranza che mette in luce i legami tra la mafia e importanti uomini politici, in particolare della Democrazia Cristiana (Dc). Alla relazione aggiunge la proposta di legge “Disposizioni contro la mafia” tesa a integrare la legge 575/1965 e a introdurre un nuovo articolo nel codice penale: il 416 bis, che prevede il reato di associazione mafiosa, pena che stabilisce la decadenza per gli arrestati della possibilità di ricoprire incarichi civili e soprattutto l’obbligatoria confisca dei beni direttamente riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.
Pio La Torre non ha paura. Non ha paura di fare chiaramente i nomi e i cognomi dei politici conniventi. Sono noti i suoi giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo dal 1959 al 1964 e poi sindaco fino al 1975. Dalla sua analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato emerge la sua convinzione che “la compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico). La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti”.
Dopo il suo periodo a Roma da parlamentare, La Torre torna in Sicilia nell’autunno del 1981 per prendere in mano la direzione del Partito comunista regionale. Poco prima, il 7 agosto di quell’anno, il Consiglio dei ministri aveva approvato la decisione della Nato di collocare un centinaio di missili nucleari di media gittata nell’aeroporto di Comiso. La Sicilia era così destinata a ospitare fino al crollo dell’Unione sovietica la più importante base militare dell’Europa del Sud. Bene, il 4 aprile 1982, si tiene a Comiso una storica manifestazione pacifista a cui partecipano un centinaio di migliaia di persone per ottenere la sospensione dei lavori per l’installazione delle testate nucleari. La Torre è in testa al corteo; sarà la sua ultima battaglia politica. Vengono raccolte un milione di firme.
Alla fine del mese, il 30 aprile alle 9 e 20, in via Turba a Palermo, La Torre – insieme al suo autista Di Salvo – viene ucciso mentre si sta recando alla sede del Pci regionale. Muore così l’inventore della legge che introduce nel codice penale la previsione del reato di associazione di tipo mafioso: la legge Rognoni-La Torre sarà approvata solo dopo la sua morte. Senza quella legge per Giovanni Falcone e il pool antimafia non sarebbe stato possibile istruire il maxi-processo.