Era passato appena poco più di un anno dalla fine della seconda guerra mondiale che già i primi turisti tedeschi arrivarono d’estate sulle spiagge italiane. Nello stesso tempo dalle valli delle Dolomiti si mettevano in viaggio verso la Germania i primi italiani ansiosi di constatare che cos’era rimasto delle gelaterie che avevano aperto nel corso degli anni Trenta molto prima che scoppiasse il conflitto e che furono costretti ad abbondare dopo il settembre del 1943. Con alle spalle i terribili guasti di un tragico periodo storico che li vide prima alleati e poi nemici, tedeschi e italiani si avviarono sulla strada di una non facile normalizzazione dei loro rapporti, i primi desiderosi di scoprire i paesaggi di un Paese che la maggior parte conosceva soltanto dalla lettura dei testi di Goethe, i secondi invece ansiosi di tornare in un Paese dove prima della guerra avevano esercitato un’attività molto redditizia. Ai gelatai seguirono poi a ruota anche molti specialisti toscani della lavorazione del marmo.
Venne poi la volta dei magliari napoletani, i quali nel mercato tedesco del dopoguerra trovarono un terreno molto proficuo per le loro mercanzie di dubbia fattura, come stoffe, tappeti e antichità varie. Salvo qualche particolare caso, furono proprio i magliari, come abbiamo visto nella precedente puntata, i primi ad aprire ristoranti con cucina italiana in Germania e ciò non tanto per soddisfare una domanda locale sull’onda dei ricordi che i turisti tedeschi avevano portato con sé dalle prime vacanze sulle spiagge italiane, quanto, invece, per soddisfare in primo luogo le proprie personali esigenze alimentari. Senza “o’sole mio” si può anche cercare di sopravvivere in Germania – disse allora un napoletano scherzando – “ma senza spaghetti al pomodoro saremmo decisamente morti!”. In un certo senso si può quindi dire che i magliari mettendo da parte le stoffe e dandosi alla ristorazione fecero capire a molti italiani giunti più tardi in Germania per lavorare nelle fabbriche, nei cantieri edili o nelle miniere tedesche che c’era anche un altro modo più elegante e più redditizio per guadagnarsi la vita.
La grande ondata di emigrazione italiana arrivò in Germania agli inizi degli anni Sessanta. La situazione economica tedesca si modificò radicalmente nell’agosto del 1961 con la costruzione del muro di Berlino, che divenne il più appariscente simbolo della guerra fredda Est-Ovest e che provocò nella Germania Ovest una forte e urgente richiesta di manodopera. E’ probabile che gli esponenti del governo di Bonn nell’apporre la firma al trattato sulla libera circolazione della manodopera nella CEE entrato in vigore nel 1958 avessero già previsto l’eventualità di un grave peggioramento dei rapporti tra le due Germanie.
Il trattato CEE fu un ideale strumento che consentì all’economia tedesca-occidentale di procurarsi alla svelta la manodopera di cui aveva urgentemente bisogno. Il trattato CEE sulla libera circolazione della manodopera evitò così il crollo del mercato del lavoro nella Germania Ovest dopo la decisione del regime della DDR di erigere il muro di Berlino. Senza quel muro i tedeschi-orientali sarebbero stati liberi di continuare a “emigrare” a Ovest con la conseguenza di dissanguare progressivamente la Germania dell’Est.
Gli italiani – seguiti da spagnoli, portoghesi e turchi – in virtù degli accordi firmati tra i governi di Bonn e di Roma nel 1955 e poi nel 1958 (Commissione tedesca di Verona) – furono effettivamente i primi ad accorrere in aiuto alla Germania Ovest evitando una pesante battuta di arresto della sua economia. Chi ha avuto modo di vedere a suo tempo le baracche costruite in fretta e in furia nei pressi delle grandi fabbriche tedeschi di automobili di Daimler, Bmw, Volkswagen e Ford per accogliere i lavoratori italiani reclutati soprattutto al Sud della Penisola italiana, seguiti poi più tardi da quelli provenienti dagli altri Paesi sud europei, ebbe modo di farsi un quadro del drammatico momento vissuto dalla Germania Ovest nei mesi seguiti all’erezione del muro di Berlino a partire dal 13 agosto del 1961.
Servivano subito decine di migliaia di braccia per far funzionare le catene di montaggio, per estrarre il carbone dalle miniere e per costruire case e strade nelle città tedesche che soltanto l’Europa del Sud e la Turchia furono in grado di fornire. La vista delle baracche, sostituite in seguito da costruzioni in muratura, ricordava involontariamente quelle dei campi di concentramento in cui furono costretti a vivere gli italiani che lavorarono in Germania dopo il settembre del 1943. Con la differenza che non si trattava più di Zwangarbeiter bensì di Gastarbeiter anche se in parte l’organizzazione fu almeno in parte fu gestiva da un personale “specializzato” che si era formato negli ultimi anni della guerra. Già nel settembre del 1964 la Germania Ovest aveva reclutato così un milione di Gastarbeiter. Braccia che lavoravano alla ricostruzione e al futuro di una nuova Germania, uomini che in seguito fecero venire le loro donne e le loro famiglie con il risultato che oggi in Germania vivono circa 6,7 milioni di stranieri, pari a 8% della popolazione.
In retrospettiva non meraviglia oggi che dopo un primo periodo di ambientamento molti italiani guardandosi attorno nelle città durante il loro tempo libero incominciassero a capire che valeva la pena di pensare alla possibilità di svolgere un’attività in proprio. D’italiano c’erano già le tradizionali gelaterie, in quegli anni sicuramente più numerose rispetto ad oggi in quanto allora non esisteva ancora il gelato industriale. Incominciavano anche a spuntare accanto o all’interno delle gelaterie i primi bar italiani che utilizzano le nuove ammiratissime macchine italiane di caffè, che si chiamavano Gaggia, Faema e Cimbali. Macchine che a differenza da quelle tedesche non utilizzavano per la preparazione del caffè il vapore ma una pressione meccanica che alla tanto amata bevanda conferiva un gusto, un’intensità e un aroma sino allora sconosciuto.
Fecero capolino anche i primi negozi di verdura avviati dagli italiani meridionali, negozi nei quali le massaie tedesche entravano senza riuscire a nascondere il loro disorientamento di fronte a verdure mai viste prima, com’era il caso dei finocchi. C’erano soprattutto quei primi pochi ristoranti dei magliari napoletani i quali ebbero soprattutto il merito di far capire che la domanda di cucina italiana era nel frattempo arrivata in Germania e che andava soddisfatta in un clima che facesse rivivere il ricordo delle belle vacanze sotto il sole italiano. L’aspetto particolare del successo della ristorazione italiana in Germania, come anche in altri Paesi, è proprio quello delle sue umili e spontanee origini. Non furono all’opera gli grandi specialisti del marketing della cucina “made in Italy”; tutto nacque invece molto semplicemente sull’onda di una spontanea iniziativa dei cosiddetti lavoratori ospiti italiani: marmisti, minatori, muratori, addetti alle linee di montaggio automobilistiche, camerieri alle dipendenze di un ristorante tedesco. Soltanto in qualche raro caso ci fu l’apporto di veri professionisti, ma strano a dirsi, l’attività della maggior parte di quest’ultimi durò soltanto qualche anno e poi sparì. Cercheremo insieme più avanti di capire il perché. La grande massa intanto si era ormai messa in movimento e nulla in seguito poté più fermare la marcia trionfale della ristorazione italiana in Germania che nell’arco di vent’anni arrivò fino a circa 20.000 locali, tra ristoranti, trattorie e pizzerie.
Foto: La trattoria Friuli a Köln-Niehl nei pressi della fabbrica automobilistica della Ford, dove agli inizi degli anni Sessanta erano giunti a lavorare circa tremila italiani