Quando la signora Merkel si costrinse ad incontrare Wladimir Putin, e quest’ultimo lasciò che il suo enorme cane la annusasse e le girasse attorno, pur sapendo che la sua interlocutrice aveva paura dei cani, tutto il mondo ebbe l’impressione che Putin non volesse affatto parlare con gli europei. Putin voleva avere gli Stati Uniti come interlocutori, perché dagli americani erano venute le provocazioni territoriali sulle liee di confine e, soprattutto, dagli americani era venuto l’affronto di volere relegare la Russia al ruolo di potenza locale. La signora Merkel reagì con grande coraggio a quella incredibile scena. Quando poi, tornata a Berlino, le fu chiesto quale impressione ne avesse ricevuto, lei rispose dicendo che la Russia non aveva altro da presentare, oltre quella prepotenza maschilista: nessun successo economico e nessun successo politico.
La signora Merkel ha poi continuato in questi ultimi tempi con la sua politica di avvicinamento a Putin, nel tentativo di risolvere diplomaticamente la questione ucraina. Dimostrando ancora molto coraggio (e lo dice uno che non è un ammiratore della sua figura politica). Tuttavia, non pare che tale soluzione sia nelle sue possibilità. La pace in Europa è ancora una volta nelle mani di altri. Per tornare alla questione del cane, abbiamo sentito cosa ne ha detto Merkel. Putin, parte sua, ha potuto esibirsi in quella arrogante e spregiudicata esibizione semplicemente perché ha riconosciuto la debolezza europea. Il successo economico, vantato da Merkel, è per ora ascrivibile alla sola Germania ed ad alcuni piccoli Stati del Nord, come Irlanda o Finlandia. Il resto dell’Europa è in piena crisi e, probabilmente, i prossimi anni saranno impegnati nel risolvere i nodi dell’economia. Inoltre, alcuni Paesi del sud, come Grecia e Cipro, sono molto propensi ad un avvicinamento con la Russia. Dal punto di vista dell’unità politica, l’Europa è in mezzo al guado e sembra intenzionata a restarci. Anche se Merkel era a Mosca de facto in rappresentanza di tutta l’Unione, a causa della potenza economica tedesca; tuttavia, di diritto, ella rappresenta la sola Germania in quanto è stata votata unicamente dall’elettorato tedesco. La debolezza politica dell’Europa sta tutta qui.
Non c’è nessuno in grado di trattare sul piano internazionale perché non c’è unità politica. E il commissario – la pur valida Mogherini – è stata nominata da un qualcuno, ma votata da nessuno. Quindi la palla torna a Putin, il quale, al momento, sembra disposto a tirare la corda ancora a lungo, con una abile politica di stop and go, in maniera da mantenere alta la tensione; il tutto con uno scopo ben preciso: un tavolo con Obama ed eventualmente altri comprimari, tra cui potrebbe benissimo figurare anche Merkel. Ma è Obama l’interlocutore principale che Putin si è scelto. Come ai vecchi tempi dell’Unione sovietica. Da parte sua, Obama sembra non molto intenzionato a regalare questo successo a Putin, che lo utilizzerebbe ovviamente nella propaganda interna. Inoltre egli è impegnato su altri fronti, in primis quello siriano. È tormentato da altri pensieri: la campagna elettorale, la Nato che sembra non più così affidabile dopo l’avvicinamento della Turchia al fronte islamico. Quindi egli ha finora mandato avanti Merkel, nella speranza di un qualche miracolo politico e diplomatico della cancelliera. Il che toglierebbe anche a lui le castagne dal fuoco. Questa però non è una politica che possa durare nel tempo. Inoltre sta accadendo negli Stati uniti un fenomeno nuovo.
In un bel libro (Come la politica estera americana cambia il mondo), il politologo di Yale, Walter Mead, descrive l’Amministrazione americana divisa in quattro tendenze. Ci sono i wilsoniani, che tendono ad esportare la democrazia rappresentativa ove possibile. Ci sono i jeffersoniani, che vorrebbero mantenere i rischi e i costi della politica estera nei limiti più bassi possibile (sono costoro i seguaci moderni della cosiddetta “dottrina Monroe”). Ci sono gli hamiltoniani che tendono a cercare comunque equilibri ragionevoli, e tra essi si possono contare Hillary Clinton e Jeb Bush, oltre che Obama stesso. Ci sono infine i jacksoniani che preferiscono invece risolvere con la guerra le questioni internazionali, soprattutto se la guerra viene combattuta altrove. Dice Mead che, man mano che i problemi economici vengono superati e si crea ricchezza, in America tendono a prevalere i jacksoniani. Tra essi si contano numerosi candidati alla Casa bianca, che proprio con la questione ucraina hanno iniziato la loro campagna elettorale. Tra questi i repubblicani Ted Cruz e John McCain. Ed insieme a loro, sono numerosi i consiglieri militari di Obama che vedrebbero bene un maggiore coinvolgimento.
Dietro, naturalmente, si muove la potentissima lobby americana delle armi. La questione ora è se l’Amministrazione Obama deciderà prima o poi di fornire armi all’Ucraina, secondo la bizzarra –jacksoniana- convinzione che più armi ci sono, più si assicura la pace sul territorio. In quel senso le pressioni anche all’interno dell’Amministrazione sono enormi, ed anche l’opinione pubblica americana sarebbe in questo senso – purtroppo – in buona parte favorevole. La fornitura di armi all’Ucraina, però, non solo ridicolizzerebbe i generosi tentativi di Merkel, ma soprattutto porterebbe ad un’esplosione inaudita di violenza nel centro dell’Europa. Uno scenario che nessuna persona di buon senso si augura di vedere.