La Berlinale di quest’anno, svoltasi dal 5 al 15 febbraio, ha conferito l’Orso d’oro, il suo massimo premio, al film Taxi di Jafar Panahi, il regista iraniano condannato dal regime di Teheran a non uscire dal paese, non rilasciare interviste e soprattutto non girare film. È stata forse una decisione dal sapore prettamente politico più che basata sul valore artistico dell’opera. Intendiamoci, Taxi è un film interessante e piacevole, che racconta la società iraniana di oggi con affetto e umorismo. Il regista Panahi l’ha girato in incognito, fingendosi taxista e piazzando una telecamera sul cruscotto del suo taxi. Ne è uscito un affresco corale, un puzzle di vite individuali (i passeggeri che si alternano sulla vettura) con le loro banali avventure quotidiane. Orso d’oro a parte, sui megaschermi delle sale del festival si sono visti i nuovi film di grandi registi quali Werner Herzog, Wim Wenders, Peter Greenaway, Terence Malick, e insieme ad essi pellicole di autori meno conosciuti a addirittura all’esordio.
È questo il caso di Vergine giurata, unico film italiano in concorso, primo lungometraggio della regista romana Laura Bispuri, già vincitrice con i corti di un David di Donatello e di un Nastro d’Argento. Protagonista del film è Hana Doda, interpretata da una bravissima Alba Rohrwacher. È una ragazza cresciuta in un’arcaica zona montana dell’Albania, un mondo a parte, una società patriarcale dove vige il codice Kanun che regola la vita di tutta la comunità delle montagne, basato sulla vendetta di sangue, sull’onore e sui clan familiari. In quel contesto prevale ovviamente anche una concezione tradizionalista nei rapporti tra uomo e donna. Una ragazza ha la possibilità di sfuggire al destino di moglie e schiava del maschio solo se, in ossequio alla legge tradizionale albanese, accetta di rimanere vergine e di vestirsi e comportarsi come un uomo. Così fa, appunto, Hana, la quale prende il nome di Mark rinunciando alla propria sessualità e a ogni possibile forma d’amore. Trasformatasi in uomo, può finalmente imbracciare il fucile, andare a caccia, bere e girare in libertà come i maschi.
Ma tale condizione alla lunga diventa una prigione soffocante. La svolta si compie quando la protagonista decide di raggiungere la cugina-sorella in Italia. Qui ha inizio un processo di riconquista della femminilità perduta, che si compie lentamente grazie all’incontro con alcuni personaggi quali la nipote adolescente appassionata di nuoto sincronizzato e un istruttore di nuoto che inizia a provare attrazione per Hana. Tratto dall’omonimo romanzo di Elvira Dones (Feltrinelli 2007), girato tra l’Albania e Bolzano, il film di Laura Bispuri è ambizioso e ben congeniato. Il Corriere d’Italia ne ha parlato con la regista a margine della proiezione per la stampa.
È stato uno di quegli incontri che cambiano la vita. E devo dire che ho pensato ad Alba come protagonista fin dalle primissime fasi di concepimento del film, perché credo che attualmente lei sia l’unica attrice in grado di interpretare il ruolo di Hana/Mark. Tra di noi si è sviluppato un rapporto per così dire simbiotico. Per tutti i tre anni di preparazione abbiamo discusso insieme i dettagli della storia e le varie tappe attraverso cui doveva avvenire la trasformazione del corpo della protagonista.
Sì, il lavoro corporeo è stato fondamentale. Si trattava di rappresentare un corpo che era stato come congelato e che piano piano subiva uno scongelamento. Il punto d’avvio dello “scongelamento” è la scena in cui Hana/Mark nello spogliatoio della piscina si asciuga i capelli e si rende conto di non sentirsi a proprio agio con il suo corpo prigioniero in mezzo ad altri corpi spogliati.
Questa storia mi ha colpito subito. La sentivo forte e originale. Sentivo si poterci mettere tanto di me e che era perfettamente coerente con il percorso intrapreso nei miei lavori precedenti. Ho un’affezione speciale per questi personaggi che spesso sono femminili, incastrati in gabbie d’identità, anche di tipo corporeo. Sento come l’esigenza di volerle liberare. Ecco, è stato questo il motore più sincero che mi ha fatto scegliere questo film.
Beh, le difficoltà sono state molte. Per esempio il fatto di dover usare l’albanese, una lingua che non è la mia. Ma anche il fatto di dover raggiungere luoghi logisticamente difficili, oltre ai tempi stretti di riprese e a una sceneggiatura dalla struttura complessa.
Per documentarmi ho intrapreso diversi viaggi in Albania. Il primo impatto è stato molto forte. Ero agitata. Era la prima volta che andavo su quelle montagne e non era facile prendere i contatti con delle vergini giurate. Il primo incontro è avvenuto in un piccolo albergo: aveva 35 anni e mi ha colpito la sua estrema durezza. Le chiedevo dell’amore e lei rispondeva «l’amore è la morte». La caratteristica delle vergini e che sono molto fedeli alla scelta fatta, solo in poche l’abbandonano. Per il Kanun la parola data ha un significato molto forte. Ne ho incontrate anche altre più anziane, di 60 e 80 anni. Colpisce il loro essere creature a metà, in cui è difficile ritrovare il lato femminile. Sono consumate perché vivono davvero in isolamento, sulla neve e in villaggi sperduti. La loro è una scelta estrema.
La protagonista del film riesce a ritrovare la sua identità femminile solo una volta che si trasferisce in Italia. Voleva rimarcare le differenze culturali tra Albania e Italia?
No. Il mio film è una riflessione sulla condizione femminile in rapporto alla libertà. Una cosa cui tenevo era di non far vedere l’Albania solo come qualcosa di negativo e, invece, il Paese occidentale – in questo caso l’Italia – come qualcosa di assolutamente positivo. Non volevo creare un bianco e nero. La riflessione non riguarda solo su quel tipo di cultura diffusa tra le montagne albanesi, ma è una riflessione più ampia anche sulla nostra società più moderna.
Dopo la lettura del libro di Elvira Dones mi sono appassionata all’Albania. Ho conosciuto albanesi residenti a Roma, ho letto libri di storia e di antropologia per saperne di più su quella realtà. Poi ho iniziato a visitare quel Paese e me ne sono innamorata.
Ci sono dei Paesi in cui è veramente allucinante, perché la violenza è molto forte. Però anche da noi, anche in Paesi che sembrano essere molto più liberi e molto più evoluti – e certamente lo sono – rimangono delle tracce di difficoltà per le donne. Il percorso femminile continua a essere molto faticoso. Lei è una regista giovane, di fatto esordiente, visto che questo è il suo primo lungometraggio.