Agli inizi degli anni Sessanta il settore della ristorazione italiana comincia lentamente a disporsi sul mercato della Germania occidentale, parallelamente alla prima ondata di Gastarbeiter, i cosiddetti “lavoratori ospiti”, provenienti dall’Italia. Un’ondata esistenziale per la crescita dell’industria tedesco-occidentale dopo l’improvvisa costruzione del muro di Berlino nell’agosto 1961, il cui effetto fu di amputare drammaticamente da un giorno all’altro l’afflusso della manodopera dalla Germania dell’Est. Se si colloca, quindi, l’inizio della diffusione della ristorazione italiana in Germania nel 1961 bisogna però nello stesso precisare che già prima del muro di Berlino la cucina italiana era presente in alcune città della Germania Ovest. Una presenza dovuta in primo luogo ai magliari napoletani, interessati a soddisfare le proprie esigenze alimentari e in seguito dopo qualche anno anche quelle dei tedeschi che durante le vacanze estive sulle spiagge italiane avevano avuto modo di conoscere i pregi della tavola italiana, pizza compresa, e i vantaggi salutari della dieta mediterranea. Confesso che nei miei articoli sugli esordi della ristorazione italiana in Germania mi era sempre sfuggito un fatto importante. Vale a dire l’esistenza di una pizzeria che esisteva già molto prima dei ristoranti dei magliari napoletani e di quelli aperti dagli emigrati italiani che erano stati chiamati dopo che i tedeschi orientali non potevano più uscire dalla DDR.
La prima pizzeria italiana nel secondo dopoguerra tedesco, infatti, fu aperta già nel marzo del 1952 a Wuerzburg per soddisfare l’incalzante richiesta di pizza e spaghetti da parte delle truppe americane di occupazione stazionate nella Germania meridionale. Ad aprirla fu un certo Nicolino di Camillo, abruzzese, il quale era arrivato in Germania nel 1947 al seguito dei GIs americani per i quali Nicolino lavorava come cuoco. Dopo essersi sposato a Wuerzburg, Nick, come i soldati americani lo chiamavano, decide di aprire una pizzeria a pochi minuti dal centro della città. Ebbe subito un grande successo, in un primo tempo con una clientela di soli GIs e in seguito anche con gli abitanti di Wuerzburg dei molti dei quali neanche sapevano cosa fosse una pizza. “Sabbie di Capri”, questo il nome che Nick diede alla prima pizzeria in terra tedesca che ancor oggi esiste, sempre molto frequentata anche grazie al suo ampliamento con una originale cantina illuminata di blu che allude alla famosa “Grotta blu di Capri”, una delle più visitate attrazioni turistiche in Italia. attrazioni turistiche in Italia.
Se “Sabbie di Capri” di Wuerzburg fu in assoluto la prima pizzeria aperta nella Germania del secondo dopoguerra non passò molto tempo che nelle varie città della Germania Ovest fecero la loro apparizione i primi ristoranti dei magliari. All’inizio non in forma ufficiale con tanto di licenza, bensì un po’ di nascosto, per esempio al riparo di magazzino del negozio di una convivente tedesca di un qualche magliaro. Un ristorante, per così dire privato, al quale ovviamente avevano accesso soltanto “gli addetti ai lavori”. Nell’era della globalizzazione con frontiere ormai, di fatto, aperte a ogni genere di prodotti provenienti da tutto il mondo il fenomeno dei magliari è ormai scomparso. Nei due decenni seguiti alla fine della seconda guerra mondiale fu, però, molto diffuso ovunque in Europa ed ebbe anche un momento di notorietà con il film “I magliari”, con Alberto Sordi nel ruolo di venditore di stoffe e di tappeti, girato dal regista Francesco Rosi nel 1959 ad Amburgo, Hannover e anche a Colonia. Fu probabilmente proprio in occasione della permanenza della troupe cinematografica di Rosi a Colonia che il magliaro Salvatore Sorriento si lasciò convincere dai suoi colleghi napoletani ad appendere al classico chiodo il mestiere del magliaro e ad avviare insieme con la moglie tedesca Erika la gestione di un vero e proprio ristorante. Lo fece, dopo aver ottenuto la licenza, utilizzando i locali di una cantina adiacente a un deposito di stoffe dove i magliari della zona erano soliti incontrarsi per parlare dei loro affari e per mangiare all’italiana. Il ristorante “da Salvatore” nella Eintrachtstrasse di Colonia ebbe, come oggi si direbbe, un decollo verticale e un boom di dimensioni del tutto inattese con regole di ammissione severissime al pari di quelle di un esclusivo club londinese. Se Salvatore come venditore di stoffe e di tappeti “taroccati” non aveva avuto un grande successo a causa del suo scarso “sex appeal” (così mi confidò allora un magliaro) come venditore di genuini spaghetti italiani si rivelò imbattibile.
Se fossero stati già allora di moda i marchi di originalità per premiare i migliori ristoratori italiani all’estero il primo riconoscimento sarebbe andato doverosamente a Salvatore. Difficile dire secondo quali principi egli selezionasse la clientela che si presentava sulla porta del suo ristorante che divenne in un breve arco di tempo l’indirizzo più richiesto di Colonia. Nacque allora la fama di Salvatore “alles besetzt”, un ritornello che egli non si stancava di ripetere a tutti quelli che non conosceva o che non gradiva negando così loro, senza possibilità d’appello, l’ingresso al ristorante anche quando era completamente vuoto. E’ certo che il metro del suo giudizio non fu mai l’importanza sociale oppure la disponibilità finanziaria dell’aspirante cliente. Per dare un’idea di chi fosse Salvatore basta citare questo episodio. Un giorno il quotidiano di Colonia, Koelner Stadt Anzeiger, sempre puntuale nel riferire nella sua rubrica mondana chi e in quale compagnia aveva pranzato da Salvatore, pubblicò una notizia che fece un certo scalpore. Era successo, infatti, che Salvatore avesse invitato a uscire dal suo ristorante un cliente, reo di aver richiesto del formaggio parmigiano grattugiato per un piatto di spaghetti alle vongole. Visibilmente inorridito all’idea di una simile sacrilega contaminazione, Salvatore, sempre secondo il giornale, avrebbe ritirato senza esitazione alcuna il piatto sentenziando nei riguardi del poco aggiornato cliente il fatidico “Lokalverbot”. Il fatto era che non si trattava di un cliente qualsiasi, bensì addirittura di uno dei due vicesindaci della città Colonia. In breve: al processo che ne seguì Salvatore pagò senza batter ciglio la multa di duemila marchi che il giudice il quale sentenziò che un cliente è padrone di mettere su un piatto di spaghetti alle vongole tutto il parmigiano che crede. Salvatore non fece una piega, limitandosi a dire che ciò poteva anche essere vero “ma non nel suo ristorante”. In fatto di regole e comportamenti gastronomici Salvatore era quello che si poteva definire un intransigente perfezionista e a questo riguardo egli non aveva alcuna difficoltà ad ammettere di non condividere assolutamente il parere secondo cui “in amore e a tavola non esistono regole e ognuno può fare quello che più gli aggrada”. Tutto ciò che arrivava sulle tavole del ristorante di Salvatore doveva essere assolutamente perfetto, sia nella qualità sia nella freschezza – cosa non facile a quei tempi – oltre che nella cottura ma soprattutto doveva essere consumato secondo le regole del buon gusto e della tradizione. Si meritò giustamente il titolo di Cavaliere del Lavoro della Repubblica Italiana, di cui andava molto orgoglioso.
Nella lista delle vivande di Salvatore, comunque, non comparve mai la pizza. I tempi però erano ormai maturi e così ci fu un altro magliaro che pensò bene di soddisfare la domanda della specialità napoletana che nel frattempo era arrivata anche in Germania. Circa un anno dopo l’esordio di Salvatore Sorriento come star della ristorazione coloniese, un altro magliaro aprì, sempre nel quartiere della stazione ferroviaria situata a ridosso del famoso Duomo gotico di Colonia, un altro ristorante italiano dotato questa volta di un forno a legna per la pizza. Arrivato giovanissimo in Germania come magliaro, Armando Marcucci, soprannominato “Grand’Hotel” per la sua predilezione nel frequentare le hall dei grandi alberghi, apre nel dicembre del 1961 la sua “Bella Napoli” non lontano dal ristorante “da Salvatore”. Il suo asso nella manica fu la pizza che il suo pizzaiolo Ciro sapeva preparare con grande teatralità e perizia dietro la vetrina del ristorante facendo rotare nell’aria il disco di pasta. L’insolito spettacolo non poteva non suscitare grande curiosità e ammirazione nei passanti che si trovavano a passare nella Marzellenstrasse contribuendo alla notorietà del nuovo ristorante. Anche Armando si rivelò un severo cultore della cucina italiana e uno dei suoi crucci fu sempre quello di essere costretto a cucinare troppo gli spaghetti che egli naturalmente avrebbe invece volentieri servito “al dente”. Il suo handicap, che condivideva con Salvatore, fu quello di una scarsa propensione al lavoro in team e di un’ innata incapacità nel delegare attività ai vari dipendenti di turno. Potendo, avrebbe fatto volentieri tutto da solo, dagli acquisti, alla cucina fino al servizio. Dopo otto anni di una simile stressante attività decise di vendere il ristorante a un cameriere italiano che lavorava all’Hotel Excelsior e che nel suo tempo libero veniva a dargli una mano. Si chiamava Luciano Falvini, un veneto destinato a divenire negli anni Settanta e Ottanta l’obbligatorio punto di ritrovo per i buongustai e per i notabili della città di Colonia, di cui parleremo nelle prossime puntate.
Di magliari come Salvatore e Armando che intuirono nei primi anni del secondo dopoguerra mondiale l’importanza e le possibilità di sviluppo della gastronomia italiana all’estero ce ne furono molti allora anche in altre grandi città tedesche soprattutto nella zona di occupazione americana. Il rigore e l’intransigenza dei due solitari e improvvisati cavalieri e difensori della nostra cultura gastronomica che ho qui descritto dovrebbero essere oggi presi a modello alle nostre Camere di Commercio nella loro attività a favore e a difesa dell’originalità della nostra cucina e del nostro modo di concepire la tavola. Tutti hanno ormai capito che la cucina italiana è un importante patrimonio culturale che va difeso e promosso, ma quel che sinora è però mancato sono state coerenza e costanza nel passare dalle parole ai fatti. A suo tempo il ministro Allemanno aveva affermato che il nostro modo di concepire la tavola doveva essere il fiore all’occhiello della nostra capacità produttiva e del saper vivere italiano. Necessario era erigere un baluardo all’ulteriore diffusione di falsi “made in Italy” cercando anche di arginare il continuo cedimento a gusti locali che nel lungo andare minaccia di alterare l’immagine della cucina italiana.