Nuova serie a cura del prof. Lorenzo Morao
“Mio padre era un tipo taciturno, che diventava loquace, quando riuscivo a trascinarlo davanti alle vedute romane, disegnate in maniera netta e precisa, che stavano appese al muro del corridoio. Subito s’illuminava in volto e cominciava a raccontarmi, commuovendosi, dei suoi ricordi di viaggio, mentre io l’ascoltavo affascinato”.
Così Goethe figlio ricorda i racconti del padre sul suo viaggio in Italia (1740).
Johann Caspar Goethe (1710-1782) era di famiglia borghese, benestante, la madre ricca ereditiera, studi umanistici e laurea in legge; aveva un’alta opinione di sé e soffriva per non essere ammesso nei circoli dell’alta aristocrazia, perché di estrazione borghese.
L’idea del viaggio in Italia
Da tempo ormai i viaggi alla riscoperta dell’arte, della storia e della cultura dell’Europa, ed in particolare dell’Italia, erano diventati di moda per i rampolli dell’aristocrazia. Già erano usciti numerosi diari di viaggi in Italia, autentiche guide curate da autori importanti come François Maximilien Misson (1687-1688), Joachim Cristoph Nemeitz (1727), Johann Georg Keyssler (1740-1741), viaggiatori del primo illuminismo, volti soprattutto a verificare con i propri occhi la realtà delle conoscenze acquisite sui libri.
Da questi intenti è mosso anche Caspar Goethe, studioso di antichità classiche, che nel 1740, a trent’anni, ancora celibe, decide di visitare l’Italia e di tradurre i suoi appunti di viaggio, seguendo la moda dell’epoca, in 42 lettere, indirizzate ad un personaggio immaginario, chiamato “Vossignoria”. E le scrive in italiano, scelta originale ed ardita, perché, nonostante la sua predilezione per la nostra lingua, si esprime in un italiano da lui stesso definito “stroppiato” e “cattivissimo”, nella convinzione che “non si parlerà mai bene una lingua se non dopo averla parlata male”.
Ad ogni modo quel suo testo non è destinato alla pubblicazione, ma ad un ambito di familiari od amici. Ad emendarlo degli errori ortografici e grammaticali ci penserà chi vorrà pubblicarlo (1932). Caspar è contento di “esser forse il primo ad offrire una descrizione intera dell’Italia nella lingua del paese stesso”.
Si appresta ad affrontare il viaggio tenendo presenti alcune priorità culturali: “Quando sei in viaggio devi dedicarti più al vedere, all’ascoltare e al prendere appunti, che alla lettura ed alla meditazione”.
Per la sua formazione gli erano estranee osservazioni di natura economica e sociale, mentre era interessato alla descrizione dei luoghi, agli usi e costumi ed al modo di governare o di amministrare.
Avventure e disavventure
Purtroppo per lui, appena varcato il confine tra il Veneto e l’Austria, a Primolano, viene preso “per uno che portasse seco qualche malattia contagiosa” (pericolo di epidemie di peste o di vaiolo), segregato per quattro settimane e costretto a pagare uno zecchino al giorno per la camera ed una buona mancia per il guardiano. “Maledizione a quella cattiva e maliziosa gente!”.
Gli vengono in mente le forme di disonestà per le quali le genti d’Italia erano note, dallo spillar soldi con mance, al riscuotere cifre non dovute, alle inefficienze delle stazioni di posta, alla fame di soldi di tanti osti e locandieri, sempre pronti a spennare i clienti. Comportamenti deplorevoli che sperimenterà poi nel prosieguo del viaggio, ma che erano praticati anche in Francia e Germania.
Al di là di tutto, però, valeva la sua convinzione che “non vi fosse paese nell’universo che contenesse tante cose belle quanto l’Italia”.
La malìa di Venezia
La prima meta di Caspar è Venezia, obbligata non solo per il consiglio di Nemeitz, scritto nella sua guida, ma anche perché vi avrebbe trovato Johann Mathias von der Schulemburg, di illustre discendenza e, come lui, innamorato dell’Italia.
È il 12 febbraio 1740 ed il carnevale sta imperversando. Dopo esser stato dileggiato per essersi presentato in piazza San Marco con l’abito di tutti i giorni, ritorna in albergo, indossa un tabarro, una baùta ed una mascherina, che gli servono da lasciapassare: “Entrai da per tutto, che parevo nato tra le maschere”.
Ma è tutta una festa: due giorni dopo è a teatro, a San Giovanni Crisostomo, dove ammira l’opera “Adriano in Siria” (di Pergolesi su libretto del Metastasio) e trova “bella di voce e di persona la prima donna, ottima l’orchestra di 50 suonatori, eleganti i costumi di scena, spettacolare la macchina con la quale 14 ballerine vengono calate dall’alto alla fine di ogni atto”.
Qualche giorno dopo viene invitato ad un ballo “in un salone illuminato con più di 200 candele, due orchestre, una gran compagnia di maschere. Stupii di questa pomposa comparsa, ove tutto spirava fasto e magnificenza veneziana”. Grazie ai buoni uffici di un giovane nobile, fa conoscenza con principi, conti, marchesi, letterati e con una dama, con la quale “si divertì ballando fino al giorno seguente”.
E poi partecipa ai festeggiamenti in onore del Principe di Polonia, al Gran Ballo (“Non si vedevano che oro e gioie. Io ne restai abbacinato”), al concerto offerto dalle “putte educate agli Incurabili” (le trovatelle) ed infine alla Regata regale, “che supera ogni altra”.
Ma comincia anche ad “intingere la penna d’inchiostro critico”. Caspar, abituato all’ordine ed all’austerità, non può tollerare comportamenti incivili, come la sporcizia, per le calli, nei teatri, persino attorno al Palazzo Ducale (“usato come latrina”), né gli eccessi del carnevale (nobili travestiti da pezzenti, storpi, feriti) e nemmeno le corride in piazza San Marco, con la “caccia orrenda” di grandi cani contro venti tori, tra le urla di 50.000 spettatori mascherati.
E come convinto luterano dai solidi principi morali, non può accettare il libertinaggio sfacciato in certi conventi femminili, il dilagare della prostituzione, l’eccessivo sfarzo della nobiltà, l’usanza delle donazioni alla Chiesa (addirittura di cortigiane), l’operato della Santa Inquisizione, e giunge a sdegnarsi al punto da definire il Papa “Vicario di Belzebù”.
Ma ha qualcosa da dire anche sulla sua Francoforte (“città dove si commettono mille e mille laidezze di questo genere”), colpa dei governanti, chiusi nei loro privilegi, “che non ammettono alcuno della cittadinanza nelle loro assemblee”. E qui Caspar si sfoga contro i nobili che l’avevano escluso dalle alte cariche come dai circoli privati per il solo fatto che non era nobile, mentre “i nobili veneziani familiarizzavano anche con i più infimi bottegari. Vergogna ai nostri tedeschi!”.
Alla fine del suo soggiorno veneziano (12 febbraio – 3 marzo), tra le altre cose si riporta a casa “un grazioso modello di gondola, la teneva molto cara ed era convinto di fare anche a me un gran regalo, permettendomi di trastullarmi con essa”, ricorda il figlio Wolfang.
Venezia resta in cima ai suoi pensieri: “La cetra non è per anche stanca di cantar le meraviglie di Venezia”.