Che senso ha abbattere le statue di Bismarck per protestare contro il colonialismo?
La chiamano “cancel culture”, ovvero “cultura della cancellazione”, ed è un trend quanto mai diffuso negli Stati Uniti, che sta pericolosamente dilagando anche nella vecchia Europa. Figlia diretta del “politicamente corretto”, la “cancel culture” mira a fare piazza pulita di tutto ciò che nella storia della nostra civiltà ha avuto e ha tuttora connotati negativi, legati allo schiavismo, al colonialismo, al dominio dei bianchi sui neri, allo sfruttamento occidentale delle risorse africane, e così via. Inutile dire che le premesse di partenza hanno motivazioni nobili ed edificanti, ma quando questa idea viene applicata, il risultato è invariabilmente assurdo. Si cancella il passato, senza mai tenere contro del conteso storico, senza mai avere uno sguardo profondo attraverso i secoli.
In Inghilterra ha fatto scalpore recentemente la rimozione del ritratto della regina Elisabetta da un’aula di studio del Magdalene College, uno dei più prestigiosi di Oxford: la motivazione, approvata dagli studenti con un referendum, sarebbe che la regina è un simbolo del «dominio coloniale». In certe università americane e britanniche si chiudono i corsi di lingue classiche (greco antico e latino) perché quelle antiche civiltà sono considerate la base della cultura occidentale, fondata sulla discriminazione e sulla schiavitù. Perfino la musica di Mozart e Beethoven è guardata con sospetto: molti chiedono che venga bandito l’insegnamento dei musicisti rappresentanti del suprematismo bianco, o che per lo meno si stabilisca un equilibrio nei programmi didattici con la cultura musicale degli studenti di colore. E negli Stati Uniti è capitato ripetutamente che venissero prese a bersaglio le statue dei presidenti Jefferson Davis e Andrew Jackson, oltre che di Cristoforo Colombo.
La “cancel culture” è arrivata pure in Germania, dove uno degli obiettivi prediletti è il cancelliere Otto von Bismarck: qualche mese fa la sua statua nel parco di Altona, ad Amburgo, è stata sporcata di vernice rossa, e poi la medesima sorte è toccata ad altri monumenti a lui dedicati in altre città. I fondamentalisti che vorrebbero fare i conti con la storia abbattendone i simboli ritenuti negativi accusano il cancelliere di colonialismo e razzismo. In particolare, si ricorda la Conferenza di Berlino indetta dal cancelliere di ferro nel 1844, con la quale fu sancita la spartizione del Congo e della regione lungo il Niger tracciando i confini delle colonie senza tenere minimamente conto delle popolazioni locali. Alla Germania toccò la Namibia, e i tedeschi compirono dal 1904 al 1906 – quando però Bismarck era morto – una campagna sanguinosa contro gli Herero e i Naba facendo migliaia di vittime.
È vero, la Germania ha cominciato soltanto da poco a fare i conti col suo passato colonialista. Sono stati cambiati i nomi di strade intitolate a ufficiali dell’esercito protagonisti della colonizzazione tedesca dell’Africa Orientale. Una statua del governatore coloniale Hermann von Wissmann, a dire il vero, era stata rimossa dalle autorità tedesche già decenni orsono. Si è anche avviato un programma di risarcimento finanziario. Ma ha senso prendersela con Bismarck? In realtà il cancelliere non era particolarmente favorevole al colonialismo prevedendo che alla lunga non avrebbe prodotto grandi vantaggi economici. Si arrese alle pressioni politiche e alle ambizioni del Kaiser che rivendicava a tutti i costi il diritto di “un posto al sole” per il Reich germanico.
A rischiare la furia iconoclastica della cancellazione storica non è solo Bismarck. In pericolo sono anche le sculture e i bassorilievi in stile neoclassicista che adornano l’area dello Stadio Olimpico di Berlino, fatto costruire da Hitler per le Olimpiadi del 1936. Sono opere in marmo di Arno Brecher e raffigurano per lo più atleti muscolosi secondo i codici estetici dell’epoca nazista. Qualcuno propone di toglierle per evitare che fungano da catalizzatore per i gruppuscoli dell’estrema destra. Altri si accontenterebbero di aggiungere didascalie che ne illustrino l’origine e la storia. Gli ultimi episodi di iconoclastia che si ricordano in Germania risalgono alla caduta del Muro nel 1989, ma in verità furono assai blandi. Venne rimossa una grande statua di Lenin in granito rosa che adornava una piazza di Berlino est, mentre quella bronzea di Marx e Engels, accanto a Unter den Linden, è rimasta al suo posto ed anzi è stata posta sotto tutela monumentale. Qualcuno ci ha scritto sul basamento: «Non è colpa nostra». E un altro ha aggiunto con arguzia: «Andrà meglio la prossima volta». L’ironia può essere più efficace della demolizione.