“Ritorniamo a sognare” (edizioni Piemme) è il libro in cui Papa Francesco, conversando con lo scrittore e giornalista britannico Austen Ivereigh, riflette sulla pandemia: una crisi che è globale. Siamo come in un labirinto: il mondo intero vi si trova dentro. È uno stato di crisi permanente che comunque non ci obbliga a stare fermi, anche se con rischio. Quella del labirinto è l’immagine – suggerita da uno dei suoi autori preferiti, Jorge Luis Borges ne Il giardino dei sentieri che si biforcano – che papa Francesco usa per fotografare il momento presente e per indicare una via d’uscita, seguendo quel filo di Arianna della creatività che i credenti leggono come opera dello Spirito “che ci chiama fuori da noi stessi”. Perché il peggio che possa accadere “è restare a guardarci allo specchio, intontiti da tanto girare attorno senza mai uscire dal labirinto. E per venire fuori c’è una sola strada: abbandonare la cultura del “selfie” e andare incontro agli altri. Perché “sono gli altri che, come Arianna, ci aiutano a trovare vie di uscita, a dare il meglio di noi stessi”. Immagini, suggerimenti, suggestioni potenti che Papa Francesco pone a conclusione di Ritorniamo a sognare. La strada per un futuro migliore. Il libro – spiega Austen Ivereigh – è nato dalle immagini di quello speciale incontro di preghiera del 27 marzo 2020 in cui “Papa Francesco è apparso in piazza San Pietro come un pilota nella tempesta, per guidare l’umanità in una delle sue notti più buie”. Il punto di partenza, per uscire dal labirinto, è quello attuale. Il Papa lo vede come “l’ora della verità”. Un momento di crisi – “da una crisi non si esce mai uguali”, ricorda – e allo stesso tempo di prova rivelatrice. Nello specifico delle nostre comunità di emigrati quanto la pandemia ha cambiato la vita quotidiana, la vita di fede, la pratica religiosa? Quanto ha stimolato nei missionari la creatività o la ricerca di nuovi percorsi pastorali? È indubbio che la pandemia è stata un terremoto per tutti, dal quale solo in parte ci siamo ripresi e con il quale in parte abbiamo imparato a convivere. L’inizio, in particolare, è stato traumatico, quasi tutte le attività sospese, comprese le visite negli ospedali e agli ammalati, annullate tutte le feste e gli incontri di cui è imbastita l’attività pastorale delle nostre Missioni, comprese le celebrazioni più solenni e sentite quali: Palme, Pasqua, Corpus Domini, feste della Madonna a maggio, prime comunioni e cresime e matrimoni. Ma anche pellegrinaggi e gite varie e feste di comunità. Questo però ha stimolato l’inventiva dei pastori per restare in contatto con i fedeli: chi ha preso in mano il telefono per parlare di più con gli anziani e con le persone sole, chi ha organizzato la messa in streaming, altri hanno utilizzato i nuovi social inviando messaggi o pensieri religiosi o il commento al Vangelo della domenica. È chiaro che una cosa è l’incontro domenicale alla Messa, altro il rito seguito in televisione. Tuttavia queste esperienze dimostrano che, quando si incontrano le necessità, vien fuori la creatività che nessun virus riesce a fermare. Una forza nuova, un desiderio di incontro, che potrebbe lasciare dei frutti sorprendenti per il futuro. Però c’è un altro lato della medaglia.
Chi scrive ha l’impressione, speriamo passeggera, che i fedeli si siano adeguati facilmente a questo, tanto è vero che le chiese non si sono riempite quando le porte sono state riaperte. Il numero dei fedeli è diminuito, in parte per necessità o per paura, in parte forse anche per comodità. Alle nostre Missioni – almeno di chi scrive – sono arrivate sì nuove richieste, ma per la maggior parte di tipo economico, specialmente di persone provenienti dall’Italia e in cerca di un posto di lavoro. Recentemente il Papa – incontrando un gruppo di giovani che più di altri hanno vissuto l’astinenza dalle relazioni amicali – li ha invitati a non chiudersi negli strumenti digitali: “La dimensione relazionale tra voi studenti e anche con gli insegnanti, è stata penalizzata da lunghi mesi della didattica a distanza. Ora vi auguro di riprenderla pienamente. Ma vi invito anche a imparare: questa esperienza negativa possa insegnare qualcosa, cioè proprio l’importanza della relazione interpersonale reale, non virtuale. Voi siete figli della società digitale, che ha aperto nuove vie alla conoscenza e alla comunicazione, ma sappiamo bene che c’è il pericolo di chiudersi in sé stessi e di vedere la realtà sempre attraverso un filtro che solo apparentemente accresce la nostra libertà”. Questo però non vale solo per i giovani. C’è il pericolo che anche i nostri fedeli, già portati a sottovalutare il valore comunitario della fede, si chiuda ancor più nelle proprie case. Chissà che il dramma produca ripensamento anche nel campo della fede e della vita cristiana! Raccogliendo provocazioni che fanno riflettere e inducono a prendere sul serio Dio, il suo progetto di vita che è compendiato nel Vangelo, codice di vera umanità. Cantare l’inno di Mameli dai balconi è servito a riempire i pomeriggi azzurri e troppo lunghi, così come scambiarsi messaggi su whatsapp serve a tenere alto il morale delle truppe; ma quel che necessita è una grande opera di conversione, dobbiamo diventare “saggi”. Dicono, che una volta passato questo virus farabutto, non saremo più come prima. Magari! Ma se non cambiamo, quando ritornerà la bella stagione, ritorneremo “distratti” come prima.
Per ora “siamo tribolati in tutto, ma non vinti; perplessi ma non disperati; abbattuti ma non annientati; portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché anche la sua vita si manifesti nel nostro corpo” (2Cor 4,8-10). Non brancoliamo nel buio! “Io sono la luce del mondo” ci dice Gesù quando i nostri cuori si sentono invasi dall’oscurità, dai dubbi, dalla confusione, dal dolore. “Chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,16).