Martin Heidegger, dal mondo accademico – e non solo – acclamato come uno dei maggiori pensatori del XX secolo, è stato protagonista, negli ultimi anni, di un acceso dibattito sulla sua responsabilità storica riguardo al suo engagement con il nazionalsocialismo negli anni ‘30 e al suo presunto antisemitismo
Il dibattito è andato a mettere sotto processo non solo l’uomo Martin Heidegger, il cui periodo nazionalsocialista era ben noto a tutti da tempo, ma anche la sua opera. Heidegger, in un arco di tempo che va dagli inizi degli anni ‘30 sino a poco prima della sua morte nel 1976, ha redatto un diario filosofico, oggi conosciuto come i Quaderni Neri, in cui sono presenti diverse affermazioni di carattere antisemitico, le quali hanno letteralmente spaccato il mondo accademico perlomeno in tre grossi partiti: il primo rappresentato da coloro che cancellerebbero Heidegger dai programmi di filosofia, il secondo da coloro che lo difendono a spada tratta, ma con poco spirito critico e, infine, il terzo da coloro che pur riconoscendone l’innegabile responsabilità storica, non intendono ricondurre l’intera opera filosofica di un pensatore, senza il quale non esisterebbe il ‘900, alle affermazioni di cui sopra.
La questione è molto complessa ed ha messo in movimento diversi “filologi” dell’opera Heideggeriana. In questo contesto non è pensabile offrirne una panoramica esaustiva. Il quesito che mi urge porre, invece, sta nel significato che questa vicenda può avere in rapporto alla storia e che ci rimanda alla questione fondamentale della necessità o meno della responsabilità morale di un personaggio pubblico come Heidegger di fronte alla storia. Ritornerò in chiusura su questo argomento.
Martin Heidegger, nel 1933, accetta l’incarico di guida dell’università di Friburgo come rettore. In questo periodo, la sua adesione al Nazionalsocialismo e a Hitler è pubblica e sotto gli occhi di tutti. Va aggiunto che Heidegger intrattiene con la comunità degli intellettuali ebrei del tempo un rapporto strettissimo. Il suo maestro Edmund Husserl era un ebreo convertitosi al cristianesimo. Molti dei suoi allievi sono ebrei. La sua amante e una delle pensatrici politiche più importanti del XX secolo, Hannah Arendt, è ebrea. La sua adesione al Nazionalsocialismo, del quale si conoscevano le responsabilità in rapporto alla comunità ebraica del tempo, sarà un duro colpo per molti di coloro che erano rimasti incantati da un pensatore, le cui lezioni ormai erano note da tempo in tutta la Germania. Nonostante il rettorato e l’adesione al nazionalsocialismo, Heidegger non smette di intrattenere con i suoi allievi un rapporto sia professionale che profondamente umano – cosa che la dice lunga su un’ambiguità caratteriale che è percepibile in molti aspetti della sua biografia.
Contemporaneamente si rende conto ben presto che il Nazionalsocialismo in cui egli aveva riposto le sue speranze per una radicale riforma della cultura tedesca, non può rappresentare la rivoluzione culturale che egli si aspettava. Anche Hitler e i suoi seguaci sono parte del decadimento proprio della tradizione metafisica del pensiero calcolante che è ormai sfociato nel dominio della tecnica sull’uomo e sulla natura. Gli anni che seguiranno, saranno anni di profonda crisi per il pensatore, il quale redigerà nella seconda metà degli anni ‘30 alcuni tra i testi più densi e belli della storia del pensiero occidentale. È il periodo del cosiddetto “Seynsdenken” in cui Heidegger formula il pensiero di un’umanità ancora stante nel cuore della storia della metafisica, quindi della storia del pensiero calcolante, del quale l’essenza è appunto la tecnica e il suo dominio sull’uomo. Il compito del pensatore, impossibilitato a superare l’orizzonte del pensiero metafisico-tecnico, è quello di smascherarne le dinamiche e di farsi custode e testimone di una dimensione, la quale al momento può essere solo evocata, ma non direttamente esperita. Questo potrà avvenire solo quando l’essere (das Seyn) – nascosto al pensiero metafisico – manifesterà nuovamente la sua luce. Per utilizzare una metafora che prendo in prestito da Peter Trawny, al momento, all’uomo è concesso solo accostarsi all’ingresso del tempio, ma non è concesso entrarvi. Ciò che vi si nasconde, la sua sacralità, resta indecifrabile e i tempi di una sua possibile rivelazione sono per ora inaccessibili.
Ora, sia nell’esperienza umana di Martin Heidegger che all’interno della sua opera si può notare una chiara presa di distanza perlomeno dai principi del Nazionalsocialismo. Sulla questione dell’antisemitismo resta un’ambivalenza irrisolta, la quale tuttavia, secondo il mio e il parere di molti altri studiosi, non è pensabile come chiave interpretativa della sua opera. Questa, infatti, non ha più valore solo in se stessa, bensì anche e forse soprattutto in rapporto alla storia del ‘900, il quale, come già accennato, non sarebbe pensabile senza il contributo filosofico di Heidegger – atmosfere culturali quali l’esistenzialismo, il post-strutturalismo, la post-modernità, discipline come la psicologia e la psichiatria, la teologia, l’ermeneutica, o autori illustri quali Sartre, Lévinas, Derrida o Gadamer devono la propria collocazione nella storia culturale del ‘900 all’opera di Martin Heidegger.
Ma a questo punto riporterei la questione all’aspetto accennato già sopra riguardante la responsabilità morale. Heidegger, nella sua genialità, e pur tematizzando la questione filosofica fondamentale con una profondità forse unica nella storia del pensiero occidentale, è come se avesse deciso volutamente di non attraversare la soglia che lo separava da ciò che aveva visto – si ripensi alla metafora di Trawny accennata sopra. Platone, nella sua Politeia, parla dell’idea del Bene come del vertice, in termini di intensità e verità, nella gerarchia delle sostanze ideali. Per Platone, il vedere le idee e soprattutto l’idea del Bene presuppone anzitutto che ci si spinga al di là delle apparenze (Platone utilizza la famosa allegoria della caverna), ma che – in un secondo momento – ci si faccia testimoni di quanto visto per coloro che non hanno ancora visto. La testimonianza presuppone un tramandare quanto si è visto, ma presuppone anche quell’esempio vissuto che Platone aveva conosciuto in Socrate, suo maestro, il quale aveva deciso volutamente di consegnarsi alle autorità che lo avevano condannato a morte, per non dover rendere vana la verità del suo messaggio. L’ultima dimensione, dunque, dell’operare filosofico è appunto la testimonianza nel senso socratico del termine.
In conclusione ci si domanda: avrebbe potuto, Heidegger, fare ciò che molti intellettuali del suo tempo fecero nei confronti del regime e schierarsi apertamente contro il medesimo? Avrebbe potuto egli seguire l’esempio del suo amico Karl Jaspers, il quale si schierò apertamente contro il regime anche a costo della vita? La questione resta aperta e non cancella né da una parte il genio del grande pensatore né dall’altra le contraddizioni di un uomo alle prese con i suoi inguaribili limiti.