Un classico dello storico Ernst Kantorowicz sull’idea di regalità nel Medioevo
L’appena trascorso settimo centenario dalla morte di Dante è coinciso con la ripubblicazione di uno dei più famosi e controversi commenti che uno storico tedesco – Ernst Kantorowicz – abbia mai fatto su un’opera apparentemente minore del fiorentino, il “De Monarchia”. Infatti l’opera predetta – “I due corpi del re” – consentì allo storico tedesco di dire una fondamentale parola su un’opera apparentemente minore del fiorentino. È noto che il ventennio fra il primo giubileo – 1300 – e la morte del poeta – 1321 – vide comparire sulla scena politica europea la prima monarchia nazionale, la Francia di Filippo IV il Bello di Valois. Lo scontro politico con i poteri politici consolidati fin dall’alto medioevo, il Papato e l’Impero, consacrato dalla storica faida fra Guelfi papalini e Ghibellini imperiali, aveva diviso e insanguinato la Germania e l’Italia di allora. Mentre in Sicilia i Vespri Siciliani conquistavano i favori della piccola ma agguerrita casata Aragonese; gli Angioini favorevoli al Papato mantenevano Napoli. Intanto le Repubbliche Marinare, con Venezia in testa, combattevano per avere più basi nel Mediterraneo, senza contare le guerre comunali del centro – nord, dove dietro gli stendardi imperiali e papalini, sostanzialmente stava la nascente borghesia commerciale che aveva superato i limiti dell’economia curtense e veleggiava verso il capitalismo industriale e la rinascita umanistica del quindicesimo secolo.
Una tormentata scissione
Due nostalgici del passato combatteranno una guerra ideologica non solo a colpi di penna: Papa Bonifacio VIII con i suoi successori, mentre dall’altro Filippo il Bello difendeva il potere imperiale. E Dante? La sua biografia politica lo vede patteggiare per i Guelfi, contro gli aretini Ghibellini (combatté a Campaldino nel 1289). Nello stesso anno sposò Gemma Donati, del partito dei Neri, rimanendo nell’ambito Guelfo, tanto che nel 1294 fece parte dalle scorta d’onore a Carlo Martello D’Angiò, elettore di Bonifacio VIII. Purtroppo Dante si trovò nel mezzo di una tormentata scissione fra i Guelfi bianchi, capeggiati dalla famiglia Cerchi, e i Guelfi neri, cui apparteneva per famiglia e lignaggio, nonché per cultura aristocratica, che non sopportavano i nuovi arrivati troppo legati alla logica commerciale. Dante non amava compromessi: applicava la legge – le famose ordinanze di Giano della Bella – che tendeva a pacificare le frequenti risse fra i gruppi predetti, benché egli stesso prediligesse quei “parvenu“ che rappresentavano la corrente letteraria francese dello “Stil novo”, che non accettava chiusure sociali conservatrici e che invece sentiva in quelle aree il nuovo bello, il nuovo vero, il nuovo sentimento politico autonomista. Credeva che questa fosse la via del ritorno al passato eroico di Roma e consentisse una nuova realtà italiana, anche rinverdendo gli splendori dell’Impero insieme al messaggio morale cristiano. Di qui, il favore per una struttura politica di mediazione, il Comune, dove erano compresenti vecchi e nuovi interessi, sotto l’unico valore, la promozione dell’uomo morale e colto, sul modello romano di Augusto.
I due Soli
Mentre Dante era a Roma nel 1300 per trattare personalmente col Pontefice, a Firenze un colpo di Stato del Valois, col concorso dello stesso Papa, portò al potere gli antagonisti Donati e Dante venne a sua volta esiliato, dopo essere stato condannato per corruzione ed estorsione. Di qui la sua estenuante e inutile battaglia per rientrare a Firenze e la sua progressiva conversione ideologica, fino a “fare parte a se stesso”, sentimento di altissima indipendenza morale che si rifletterà nell’opera politica quasi terminale, il “De Monarchia”, un testamento profetico che guardava a un passato da riattivare al più presto nella sua città. Le sue speranze di rientrare a Firenze sotto le insegne imperiali di Arrigo VII, sul modello di Federico II di Svevia, sfumarono quando costui morì. Intanto il Papato era passato nelle mani di Filippo il Bello che lo aveva sradicato da Roma per trapiantarlo ad Avignone. Poi, nel 1316, era stato eletto Papa Giovanni XXII, su cui Dante aveva riposto le ultime speranze di rinnovamento. A tal fine aveva scritto la sua ultima operetta, il „De Monarchia“, in cui stigmatizzava la questione politica più a cuore, mentre diventava definitiva l’ultima cantica del suo capolavoro, il „Paradiso“. Propose in modo articolato tre quesiti fondamentali che lo porranno in posizione centrale nella storia della filosofia politica: l’Impero è essenziale al buon governo nel mondo? La monarchia fu una scelta fondamentale per Roma, o fu predestinata da Dio affinché colà rifulgesse la gloria cristiana? L’autorità imperiale derivava da Dio, anche se il mandato divino fu dato esplicitamente al Papa e non all’Imperatore? Questi temi verranno sviscerati col metodo della retorica scolastica, e riassunti nella teoria dei „due Soli“, cioè il Papato e l’Impero. Dante però insisteva nella presenza di un’unica fonte di luce superiore, che era Dio. Tuttavia la parte morale della sua teologia politica appariva più innovativa, visto che la parte teoretica non aveva fatto che ribadire il pensiero di San Tommaso. L’uomo era posto al centro dell’universo storico, pur in posizione subalterna al Dio della Genesi, perché „creato a Sua immagine“. Due entità lo caratterizzavano: la corruttibilità (il corpo) e l’incorruttibilità (l’anima). L’una tende alla felicità terrena, ricercando le virtù naturali e quelle filosofiche, insegnate solo dai filosofi di scuola aristotelica; l’altra invece è figlia della Grazia celeste e tende alla vita eterna con Dio. Principale gestore del corpo in forma assoluta è l’Imperatore, che formula le felicità temporali secondo il diritto romano; mentre al Papa spetta l’esclusiva guida spirituale affinché l’uomo raggiunga la vita eterna.
I due corpi
Fortissima fu la reazione dei Domenicani, guidati da Guido Vernani che poco dopo la morte del Vate, scatenarono una campagna denigratoria contro il “pamphlet”, che portò alla condanna del “De Monarchia” da parte del cardinale Bertrando del Poggetto nel 1328 e alla iscrizione dell’indice dei libri proibiti durante la Controriforma. Soltanto quando il Witte in Germania nel 1874 tradusse e commentò l’opera in esame, da fondatore già nel 1865 della “Deutsche Dante-Gesellschaft”, in armonia alla reazione degli intellettuali cattolici contro le persecuzioni di Bismarck sul Papato cattolico – la c.d. Kulturkampf – il “De Monarchia” riaprì il discorso neotomistico in Europa. Del resto, gli eccessi della Rivoluzione Francese e delle Rivoluzioni democratiche del 1848, avevano richiamato una singolare teoria del ‘500, attribuita a un giurista inglese Edmondo Plowden, che aveva ipotizzato una innovativa figura sulla persona del Re, non solo umana perché mortale e corruttibile, ma anche titolare di un corpo politico, incorruttibile, sempre vivo nel mondo. Un secondo corpo, che succede da un soggetto all’altro, impersonante la Sovranità. Un “essere” fuori dalle pretese di altri istituzioni, “Superiorem non recognoscens” simile all’Imperatore di Dante. Un Imperatore ossequioso di Dio e da questi comunque investito di potere assoluto sulla terra. Teoria che proprio uno studioso del ‘900, Ernst Kantorowicz, aveva ricostruito nelle sue ricerche biografiche del 1927 sulla figura di Federico II di Svevia. Era la riproposizione della teoria dei due Corpi, una peculiare immagine dove coabiterebbero in un solo essere – il Sovrano – e due nature, una metaforica – il Re come ufficio – e una reale, l’uomo investito del potere. Diceva Kantorowicz appunto che proprio tale doppiezza immedesimativa attribuirebbe automaticamente la titolarietà del potere. Quasi una “sostanza infinita, un’anima immortale” che incarnava l’umanità nel Medioevo, un corpo mistico perenne, presenta sempre e comunque in ogni singolo “cittadino dello Stato”. Passaggio che Hegel, forse inconsciamente, ribadirà nella raffigurazione dello Stato moderno in età romantica. Non c’è chi non veda in questa pur sintetica ripresentazione la teoria di Dante. Infatti lo studioso tedesco – riparato perché ebreo a Princenton dopo la presa del potere nazista – già nella sua prima edizione dedicò un corposo capitolo al pensiero politico del poeta, al fine di estrarre, dall’immenso caleidoscopio di caratteri attribuiti nel Medioevo al Monarca, una metafora doppia dell’uomo come persona e del pari perché ricoperto in quanto Sovrano. Perciò sottolineava che i “due Soli”, non solo rivestono un ruolo superiore, ma anche una ulteriore natura umana. Di qui, la stretta connessione fra felicità terrena e felicità eterna che si danno mutua riconoscenza al fine di esercitare equamente la Sovranità terrena e spirituale nello stesso momento.
Rivoluzione e reazione
Quasi un omaggio al modello bizantino, che però Kantorowicz riduce a livello di simbolo, non certo di reale governo politico, non dimenticando come la filosofia politica moderna aveva smontato la concezione originaria medievale già in occasione del famoso discorso di Robespierre del 3-9-1792, rivolto alla Convenzione per decidere la sorte del Re dopo che questa aveva dichiarato decaduta la monarchia. Qui la distinzione fra “ufficio” oggettivo e di persona incidentalmente ivi pervenuta – e che di esso è soltanto un temporaneo “inquilino” – viene totalmente rovesciata. Infatti, Robespierre affermava: “la sicurezza pubblica non richiederà mai più la pena di morte contro i delitti ordinari, perché la nuova società potrà sempre prevenirli con altri mezzi e mettere il colpevole nella impossibilità di uno reale … Ma quando si tratterà – come oggi si tratta – di un Re detronizzato, nel cuore di una rivoluzione ancora non consolidata da nuovi leggi, di un Re il cui solo nome attira la piaga della guerra sulla nazione agitata, né le prigioni, né l’esilio, possono rendere la Sua concreta esistenza indifferente alla felicità pubblica. Questa crudele eccezione alle leggi ordinarie che la Giustizia consente, può essere imputata soltanto alla grave natura dei suoi delitti…”. Tale inversione di prospettiva era cosciente in Kantorowicz, proprio a guardare il sottotitolo originale dei “Due Corpi” (saggio sulla teologia politica del Medio Evo), un rilievo che conferma la assoluta astoricità del concetto ripreso dal pensiero politico di Dante, senza contare come uno dei più controversi politologi della Germania nazista, Carl Schmitt, proprio negli anni ‘20 aveva teorizzato un altro salto di qualità nel concetto di “sovranità dello Stato” moderno, dove questo era stato inscritto nella categoria “teologia politica”. La profonda religiosità del Kantorowicz aveva rifiutato tale ideologia, perché trasferire e sostituire Dio onnipotente al posto del Legislatore, credere che lo “stato d’eccezione” fosse una dichiarazione di Sovranità, fino a pensare che il deputato fosse “un sacerdote”, gli sembrava quasi una barzelletta. Continuare a credere in forme di secolarizzazione così auliche altro non era che una battuta rispetto all’umanesimo medievale che aveva inventato la doppia natura del Re. Piuttosto, Kantorowicz credeva nell’alto messaggio di Dante che per mezzo delle sue difficili storie personali, volle dare al mondo un testamento spirituale di un esule, al di là delle idee e del loro valore storico. E che queste siano state vissute fino alla morte è un segnale indelebile di fronte alle interpolazioni successive. Era un Dante pellegrino ben diverso dal Dante poeta all’epoca più conosciuto. Un destino simile a tanti emigrati che faranno i conti con l’affievolirsi dalle democrazia americana nel dopoguerra, come presto avverrà per Thomas Mann e Bertolt Brecht.