Da che l’essere umano ha una sua storia, non ha mai smesso di migrare. Tra le tante definizioni che si potrebbero dare della natura umana una è di certo la sua dimensione esploratrice e l’esplorare, lo scoprire al di là di un confine, presuppone movimenti migratori più o meno ampi. È pur vero che col passare dei secoli ci siamo sedentarizzati in misura sempre maggiore, ma quel che siamo oggi, comodi casalinghi incasati con le pantofole ai piedi, non lo eravamo alle origini della nostra storia.
Ma partiamo anzitutto da una confessione.
La maggior parte di noi è inguaribilmente eurocentrista e quando parliamo di un fenomeno come le migrazioni, la prima associazione mentale che abbiamo è quella dell’europeo che si propone di scoprire il mondo oltre i confini del conosciuto.
Si pensi alla figura mitologica di Ulisse, si pensi alle spedizioni di Marco Polo o di Cristoforo Colombo alla scoperta di nuovi continenti. Figure mitologiche o storiche in cui, tuttavia, si mescolano storia e mito, indipendentemente dall’esistenza o meno dei soggetti in questione. Trasportato dal sogno e dalla nostalgia dell’ignoto, l’europeo si è sempre spinto di là dai propri confini alla ricerca dell’altro.
L’Esodo, il libro del primo testamento biblico, sul quale si basa tutta la storia di Israele, è una storia di migrazione, la quale conduce il popolo dalla schiavitù alla liberazione. Paradossale in questa storia è che il momento del passaggio, la traversata del e nel deserto, rappresenta il vero momento strutturante della scoperta di una nuova identità per il popolo. La vera “terra promessa” è il deserto stesso come luogo di scoperta di se stessi. Il migrare ha diverse ragioni. Si migra per scoprire qualcosa che non si conosce, si migra per conoscere meglio o in un modo del tutto nuovo se stessi, si migra per conquistare e infine si migra per fame.
Il XX secolo per molte nazioni europee è stato il secolo delle migrazioni per fame e disperazione. È stato anche il secolo in cui si è consolidato il fenomeno del colonialismo e cioè quella forma di migrazione atta alla sottomissione di altre terre, culture e popoli. Ma questo è un fenomeno che interessa anzitutto la grande politica, quella dei poteri forti, di quelli dei quali si dice facciano la storia. Tuttavia ci sono altre storie, piccole storie, storie non scritte o forse scritte a malapena, di gente che ha lasciato la propria terra per disperazione e in cerca di fortuna. Tutto il mito americano dell’american dream è basato sulla fame di chi sperava in un futuro migliore. E così irlandesi, tedeschi, italiani e via dicendo hanno tentato di ovviare all’arretratezza delle loro terre spostandosi dall’Europa al continente americano.
Molti dei nostri connazionali sono partiti alla conquista non solo degli Stati Uniti, ma anche dell’America Latina. Il passaggio dall’Europa del sud a quella del nord, per gli italiani, è un fenomeno che conosciamo solo a partire dal dopoguerra, se si vuole guardare soprattutto alle migrazioni di massa.
Oggi assistiamo al fenomeno di spostamenti di massa di gente esasperata che dal continente africano o dal medio oriente si spostano verso l’Europa in cerca di una vita migliore.
Che questi movimenti migratori siano essi stessi la conseguenza di politiche colonialiste che vanno avanti da secoli non serve neppure accennarlo. Si tratta di una costante delle grandi migrazioni.
Quando un paese soccombe economicamente perché la bilancia delle ricchezze pesa eccessivamente dalla parte opposta, a chi sta dall’altra parte non resta che fuggire e cercare fortuna altrove. Lo sanno bene gli italiani che dal sud sono dovuti andare altrove in cerca di un futuro migliore per sé e i propri figli. Ma lo sanno tutti gli europei che hanno dovuto fare altrettanto in tempi di depressione.
Ma che cosa significa veramente migrare? Qual è il senso della migrazione? Cosa accade veramente quando si migra?
Di là dalle motivazioni che ci spingono a migrare, gli effetti possono essere estremamente affascinanti. Il migrare non è anzitutto solo uno spostarsi geograficamente da luogo a luogo. L’essere umano intrattiene con la propria terra, con ciò che in termini di cultura si dispiega su un determinato territorio, con ciò che è territorialmente proprio, un rapporto viscerale. Abbandonare ciò significa mettere in gioco tutta una serie di elementi che compongono la sua identità, per muoversi verso l’ignoto.
Migrare significa in un certo senso seppellire un Io e cominciare a crearne un altro. Spesso, chi migra non riesce più a tornare indietro, perché quell’individuo che era, in fondo, non esisterà mai più. Migrare è in questo senso un viaggio spirituale, un’esperienza di morte e di rinascita.
Migrare significa poi sperimentare sulla propria pelle il fenomeno dell’inculturazione e di tutto ciò che ne comporta in termini di conflitto interiore e sociale. Conoscere una cultura diversa dalla propria è un processo per il quale a volte non basta una vita. Non è solo una questione di linguaggio nel senso più superficiale del termine.
Tradurre la propria vita nel linguaggio della terra che ci ospita richiede un lavoro di ricostruzione della propria identità.
Il che non significa cieca abnegazione e accettazione passiva, ma reinterpretazione del proprio vissuto in una chiave nuova. Rifarsi quasi da capo è un’esperienza a volte disorientante, a volte del tutto avvincente, che ti permette di capire meglio quello che hai lasciato alle spalle e di guardare al futuro con occhi del tutto nuovi, con gli occhi dell’esploratore alle prese con un mondo nuovo.
Infine, migrare significa tematizzare quella dimensione di nomadismo che ci riguarda tutti anche quando ne abbiamo perso la percezione. Sì, perché la vita, che ci muoviamo geograficamente oppure no, non smette mai di essere un viaggio alla ricerca di una risposta alla domanda fondamentale sul chi veramente siamo.