Nella seconda settimana di marzo (credo il martedì), verso le nove mia moglie telefona all’ospedale di Imperia per chiedere un appuntamento, dovendo sua madre (nonché mia suocera, estirpata dalle uggiose lande trevisane per farle assaporare la nostra eterna primavera…) ripulire l’ago che ha permanentemente infilato sopra il seno destro (causa operazione), in modo da permettere al flusso sanguigno di scorrere senza impedimenti.
Una medicazione denominata stent, da eseguirsi preferibilmente in un ente ospedaliero ogni tre settimane. Normale routine, direte. Una telefonata al centralino per concordare l’appuntamento e via, pensare immediatamente ad altro. Ahimè, non sapeva la mia dolce metà che sarebbe entrata a capofitto in un aggrovigliato e diabolico bosco burocratico (di cui l’Italia ha il copyright!) Se avete pazienza di continuare la lettura, sedetevi e godetevi il seguito.
Come detto, si telefona all’ospedale. Al centralinista mia moglie espone succintamente la medicazione occorrente a sua madre, chiedendogli un ravvicinato appuntamento. Non l’avesse mai fatto! Il primo groviglio di rovi piantato dai burosauri le si presenta sotto forma di un categorico, seppur cortese, diniego: “Signora, deve rivolgersi al C.U.P. di Genova” gli risponde, forse compiaciuto, “l’unico Ente autorizzato per queste prenotazioni”. Cascando come un pero dall’albero, mia moglie chiede che razza di Ente si tratti, non avendolo mai sentito.
Senza troppo scomporsi il telefonista, indubbiamente abituato a ricevere simili zotici e pletorici interrogativi, con imperturbabile calma le sillaba: “C punto, U punto, P punto, un acronimo sotto il quale si cela il Centro Unico Prenotazioni”, snocciolandole seduta stante anche il numero telefonico del sunnominato Ente, provvidamente salvato per averlo frettolosamente scarabocchiato sulla prima pagina del giornale che si trovava sul tavolo.
Stizzita, dopo avermi sinteticamente relazionato, compone immediatamente il numero di questo indefinibile Ente, aspettandosi il solito calvario dell’attesa, allietata dall’altrettanto insipida musichetta. Invece, dopo solo due trilli, ecco risponderle un’operatrice dai modi gentili, la quale, dopo averla educatamente ascoltata, si annota il nostro recapito telefonico, assicurandole che entro pochi minuti l’avrebbe richiamata per dettarle il giorno e l’ora precisi.
Nel riattaccare rimaniamo entrambi sbigottiti e contenti di tanta solerzia. Finalmente avevamo trovato un’operatrice competente e affabile in un Ente parastatale! Da stropicciarsi gli occhi. Infatti, poco dopo squilla il cellulare e sul display appare il numero del CUP. Col sorriso dei giorni migliori, nell’accingersi a scrivere data e ora dell’appuntamento, la moglie mi guarda maliziosamente, come a dire: “Hai visto come siamo brave noi donne? Tiè, impara e taci”.
L’operatrice era la stessa, ma quello che disse la fece impallidire, ripiombandola nuovamente nel bosco burosauoro che pensava oramai definitivamente alle spalle.. La voce al telefono era molto dispiaciuta e imbarazzata nell’informarla che, inopinatamente, il server dell’ospedale non recepiva prenotazioni di questo genere. Per cui doveva giocoforza rivolgersi direttamente all’ospedale, dandole, di soppiatto, un amichevole suggerimento: farsi passare immediatamente il reparto chirurgia. Stile Ponzio Pilato, tanto per intenderci. Ringraziando, ma inviperita più che mai, richiama il centralino dell’ospedale, facendosi passare il reparto di chirurgia.
Le risponde l’infermiera addetta. “Mi dica, signora. Cosa? Una prenotazione? Che genere di prenotazione? Una stent? Non le hanno detto al centralino che deve rivolgersi al CUP per questi casi?”. Mia moglie, sforzandosi di rimanere calma, ribatte tutto d’un fiato: “Si, ho appena parlato con la centralinista del CUP, riferendomi che il vostro server non è adibito a questo tipo di prenotazioni”, guardandomi di sghimbescio negli occhi per cercarvi una conferma.
L’acida e secca replica dall’altro capo del filo la prese alla sprovvista: “Impossibile. Le ripeto che non si accettano prenotazioni se non attraverso il CUP. Arrivederci”. L’inaspettato clic telefonico aveva riacceso foschi presagi. Che fare? Mia suocera, una quasi noventenne che aveva ascoltato il tutto e molto aveva penosamente vissuto nel corso della sua vita contadina, appoggiandole la mano sulla spalla la consolò, sospirando: “Non importa tesoro, vorrà dire che mi farò medicare al mio ritorno a casa”.
Eh no, cribbio! Non volevamo arrenderci codardamente a questi burocratici sopprusi. Per cui, su mia insistenza, pregai mia moglie di riprovare. Dopo qualche flebile diniego, imbufalita più che mai, ma decisa a trovare un appiglio per districarsi dal groviglio di burocrazia in cui ci eravamo nuovamente impantanati, riafferra con rabbia il cellulare e, da Ponzio, torna a collegarsi con Pilato, ovverossia il fantomatico CUP. Dopo pochi istanti ecco la medesima voce che, sbigottita e incredula, ascolta il colloquio intercorso tra lei e l’ospedale, sottolineato dagli smadonnamenti che il sottoscritto spediva ai vari Enti burosauri disseminati lungo tutto lo Stivale e certamente udibili in sottofondo.
La telefonista, cercando di calmarci, fors’anche dispiaciuta per gli inattesi sviluppi, chiama il suo superiore, relazionandolo sull’accaduto. “ne sei sicura?” sentiamo aprostofare. E, immediatamente dopo, “Lascia che provi io”. Cosicchè, in presa diretta, col telefonino inserito sul vivavoce, percepiamo la tastatura del computer ripercorrere l’intero iter burocratico stabilito dal manuale del CUP. Niente, nisba. Anche lui riceve dal server un perentorio niet da lasciarlo ko. Sgomento e dispiaciuto, facendo capire di non saper più a che santo rivolgersi, si scusa con mia moglie e riattacca. Per nulla sconfitti, anzi, più incazzati che mai, ritorniamo da Ponzio, reparto di chirurgia dell’ospedale.
Non l’avessimo mai fatto! Non solo risentiamo il disgustoso diniego da parte della cornacchiante infermiera ma, in contemporanea, come una sinistra eco, percepiamo il medesimo monosillabo uscire da un’arrogante, boriosa e supponente voce maschile, presumibilmente il dottore addetto alla medicazione. Un epilogo kafkiano da lasciarci inebetiti, inerti, umiliati. Doverosa domanda. Cosa avreste fatto voi in simili frangenti?… Prego?… Può ripetere…? Giusto!! Abbiamo fatto nientepopodimeno quello a cui state indubbiamente pensando e che tutti gli italiani furbescamente s’adoprano in simili circostanze.
Abbiamo chiamato l’amico che, a sua volta, chiama altri amici e, se non bastasse, gli amici degli amici, in un inesorabile abbraccio di connivenze, intercalato da interminabili, spossanti, talvolta pietistici bla bla bla, che si dissolvono magicamente a problema risolto. Come sempre, d’altronde. Una pantomima tipicamente italiana, che lascia fatalmente uno sgradevole amaro in bocca, nell’evidenziare quanto sia crudele e cinica questa odiosa burocrazia che quotidianamente ci sghignazza, mimetizzata tra mille scartoffie o indigeribili dinieghi.
Con alle spalle l’appoggio di una parassitaria casta di burosauri, assisa sugli scanni di un Parlamento, unicamente intenta a partorire ciclopici ed inservibili Enti, per lo più obsoleti dalla nascita, ma incredibilmente capaci di creare a noi, proni sudditi, difficile il facile, attraverso l’inutile. Un applauso ai Burosauri!