Una figura di alto profilo
Che Mario Draghi sia una figura di alto profilo è un fatto indiscutibile. È un economista provetto, con tanto di specializzazione al Massachusetts Institute of Technology. Dopo avere ricoperto cariche importanti a livello pubblico e privato (direttore generale del Ministero del Tesoro negli anni Novanta, managing director di Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia), tra il 2011 e il 2019 è stato presidente della Banca Centrale Europea guidandola con l’autorevolezza e la sagacia che tutti gli riconoscono. È un uomo abituato a maneggiare ingenti somme di denaro, è conosciuto e rispettato dai principali leader europei. Con Angela Merkel in uscita dalla vita politica, con Macron in attesa di una difficile rielezione, con la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea, potrebbe perfino diventare il più influente leader politico del vecchio continente.
Da Conte a Draghi ovvero l’esautoramento della politica?
Eppure, la sua chiamata al ruolo di Presidente del Consiglio, annunciata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo il fallimento delle consultazioni con le forze politiche desta non poche perplessità sul piano politico e istituzionale. La chiamata di Draghi era davvero l’unica soluzione praticabile? Siamo in una situazione di emergenza così disperata da dover invocare un governo di unità nazionale in cui siano presenti tutti i partiti? Non c’erano altre soluzioni per superare la grave crisi di governo prodotta con suprema incoscienza da Matteo Renzi? Genera dubbi il modo frettoloso con cui è stato liquidato il governo Conte, che pure aveva ottenuto discreti risultati nella gestione della pandemia e che godeva di ampio consenso popolare. In fondo, solo poche settimane prima della sua liquidazione, la maggioranza che sosteneva Conte aveva incassato la fiducia in entrambe le camere del Parlamento. I partiti di quella coalizione (M5S, PD e Leu) avevano chiesto un reincarico allo stesso Conte per proseguire. Le opposizioni avevano chiesto elezioni anticipate. Ma Mattarella non ha accontentato né gli uni, né gli altri optando di sua iniziativa per un governo di tutti guidato da Mario Draghi. Il futuro ci dirà se è stata una decisione saggia, ma di certo questa svolta ha il sapore di un esautoramento del Parlamento e della politica a vantaggio di una concezione presidenzialista, che però non è contemplata nella nostra Costituzione. Non solo: il ricorso al governo dei “competenti”, come si dice, al posto di quello espresso dal parlamento sulla base dei risultati elettorali, sposta il baricentro del sistema politico verso una discutibile e pericolosa china oligarchica. È quello che vogliamo?
Tra novità e continuità
Draghi non è mai stato un politico in senso proprio, è abituato a gestire strutture gerarchiche in cui la parola del vertice è definitiva. Avrà voglia di stare ad ascoltare i suggerimenti, le critiche, le obiezioni dei tanti politici della scena nazionale, ciascuno con le sue indicazioni particolari? E soprattutto Draghi è un uomo di destra, di centro o di sinistra? La sua maggioranza di governo è omnicomprensiva (a parte Fratelli d’Italia) e dunque rappresentativa di tutti i colori: un esperimento che non ha equivalenti in nessun paese del mondo. Tutti gli hanno dato fiducia prima ancora di sapere quali programmi avesse in mente. L’unica ideologia espressa chiaramente da Draghi è la fedeltà all’europeismo, e persino la Lega di Salvini pare essersi adeguata. Benissimo, ma quale Europa? Quella dell’austerity ad ogni costo, che ha affossato la Grecia, o quella solidale del Recovery Fund e del debito condiviso?
Ci si aspettava un’immediata rottura col recente passato, ma i discorsi programmatici di Draghi in parlamento, come anche le sue prime mosse, rivelano una sorprendente continuità col precedente governo Conte. Pare, infatti, che Draghi non voglia chiedere il MES, non voglia costruire il Ponte sullo stretto, non voglia modificare la riforma della prescrizione, né la legge sul reddito di cittadinanza (con buona pace di Matteo Renzi che su questi punti aveva chiesto e ottenuto la testa di Giuseppe Conte). Anche nella gestione della pandemia e nella definizione del Recovery Plan sembra intenzionato a seguire le orme del predecessore (con buona pace di quanti chiedevano un radicale cambio di passo). E Draghi adotta pure il medesimo stile di governo, ovvero il procedere per DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), tanto contestato ai tempi di Conte come segno di autoritarismo. Per altro si noti che la metà circa dei ministri dell’esecutivo Draghi sono gli stessi che c’erano prima. Ma allora perché tutto questo can can? Perché una crisi di governo in piena pandemia? Perché la fatica estenuante di consultazioni su consultazioni? Solo per far saltare Conte e metterci al suo posto un altro ritenuto più presentabile?
«Beato il popolo che non ha bisogno di eroi»
Da ultimo, una grande perplessità deriva dalla marea di commenti ossequiosi fino all’adulazione che si leggono sulla stampa e si sentono in televisione. Va bene l’epiteto di “SuperMario”, che può avere un risvolto ironico, ma che senso ha incensare Mario Draghi perché, come tutti i comuni mortali, quando va a fare la spesa al supermercato si mette disciplinatamente in fila? Che altro dovrebbe fare? Farsi avanti a gomitate o pretendere di non pagare? Il diluvio agiografico è irritante e fa pensare alla vecchia massima di Brecht «beato il popolo che non ha bisogno di eroi». Abbiamo letto che Draghi al liceo era un ottimo studente (e chi ne dubitava?), ma non un secchione, che aiutava i compagni di classe, senza farli copiare. Abbiamo letto che durante le vacanze estive, trascorse di solito in una masseria del Salento, si comporta da cliente ideale, non disturba, passa le ore in tranquilla lettura. Abbiamo sentito commenti in cui si elogia lo stile comunicativo sobrio e moderato del nuovo premier (ma forse che Conte nei suoi discorsi strepitava come un ossesso?). Ora, si può capire l’entusiasmo perché una figura di tale prestigio sia giunta sulla poltrona di Palazzo Chigi, ma che senso ha questa esaltazione acritica? Siamo sicuri che non sia controproducente? A leggere certe cronache vengono in mente i quotidiani del Ventennio fascista, che gareggiavano tra di loro per santificare le gesta del Duce, sempre laborioso, che vegliava sul suo popolo, il cui lume nell’ufficio di Palazzo Venezia non si spegneva mai, sempre pronto a trebbiare il grano, tracciare solchi e difenderli con la spada.
Per carità, non vogliamo minimamente paragonare Draghi a Mussolini, ci mancherebbe. Ma il profluvio di piaggeria è ripugnante e imbarazzante, indegno di una stampa libera e democratica. Anche perché dopo tutta questa acritica glorificazione c’è il rischio, una volta conclusa la luna di miele del nuovo governo, che tutto precipiti. Basta poco per passare dal paradiso all’inferno, dall’encomio al dileggio. Nella storia recente è già successo a più di un premier di essere acclamato come salvatore della patria e poi cacciato con vituperio (si pensi a Mario Monti, ma anche a Berlusconi e a Prodi). E l’ultima cosa che l’Italia oggi può permettersi è di bruciare una risorsa preziosa come Mario Draghi.