Non è gradevole essere distolti dalla quotidianità senile in cui si giace, seppur in quest’angolo di paradiso che è il Ponente ligure, dal giungere, come un improvviso e inatteso manrovescio, della notizia della morte di una persona che conosciuta in gioventù. Sto parlando di Salvatore Volo. E’ stato per me un onore averlo conosciuto ed averlo applaudito per le sue prodigiose finezze calcistiche; avergli voluto bene come un fratello. Solo il mio rientro in Italia, nel marzo del 1982, ci separò forzatamente, ma egli è sempre rimasto ancorato nelle remote pieghe dei miei intimi ricordi. Il 26 marzo scorso è mancato all’età di 67 anni.
Salvatore Volo era siciliano verace, ancorchè trapiantato dal lontano 1965 in Germania, e più precisamente in quella Francoforte che lo accolse da subito, trovandogli lavoro alla base americana a pochi passi dalla stazione centrale, un anno prima della mia venuta. Ho letto il discorso commemorativo della reverendo Doris Hege. Parole semplici, sincere, che hanno spiegato sinteticamente il percorso lavorativo e familiare di Salvatore; parole sicuramente accolte con riservato orgoglio dalla moglie, Carmen, e dal figlio, Franco. Purtroppo, nell’omelia, è stato inopinatamente dimenticato il suo giovanile periodo calcistico, incancellabile nella mente di centinaia di italiani che in quel periodo si deliziavano alla vista del suo funambolico gioco.
Adesso, prima di proseguire sull’onda dei ricordi, mi preme accompagnare per mano i giovani che mi leggono (altrimenti non capirebbero un accidente e volterebbero, infastiditi, subito pagina) sull’impervio acciottolato su cui i loro padri camminarono, metaforicamente strisciando i piedi, per dare a loro un futuro più sicuro. Mi auguro di riuscirci, e chiedo gentilmente al nostro bravo direttore di chiudere possibilmente un occhio ( magari entrambi…), e di darmi lo spazio occorrente a riassumere, in una veloce carrellata, gli albori della prima emigrazione, vissuti, tra la fine degli anni quaranta e gli anni settanta, da quegli italiani venuti speranzosi in Germania col prezioso permesso di lavoro rilasciato dalla ditta che li assumeva e l’altrettanto importante documento di soggiorno, concesso dalle autorità tedesche competenti.
Dai loro colleghi di lavoro tedeschi vennero immediatamente ribattezzati con il volgare e stupido epiteto di Spaghettifresser. Nella dizione burocratica venivano etichettati Gastarbeiter, ovverossia ospiti del lavoro. Da noi sono tuttoggi ammirati come pionieri di un vivere solitario, uomini di frontiera spavaldamente orgogliosi di quella matrice italiana che esibivano quotidianamente nelle fabbriche in cui strenuamente lavoravano. Li ricordiamo oggi tristi ma sereni. Appagati. Consapevoli della sicurezza trovata in una nazione dove l’idioma era assurdamente ostico alle loro orecchie e alle loro lingue. Però consentiva a loro di poter mantenere agiatamente la moglie e i figli rimasti momentaneamente in Italia. (Solo parecchio più tardi, con la certezza del domani, molti ebbero l’immensa felicità di richiamare a sé la propria famiglia). Quando conobbi Salvatore Volo, si erano da poco aperti, in alcune regioni della Germania, col prezioso contributo dei nostri Consolati, i Centri Italiani.
Quello di Francoforte si trovava nella Vogelweidstrasse, poco dopo il ponte che attraversava il fiume Meno, a cinque minuti di strada dalla stazione centrale, affettuosamente ribattezzata da chi la frequentava Vogelhaus. Il Centro era un prezioso punto d’incontro serale in cui si respirava aria di casa. Si udiva l’intercalare dai vari dialetti, per lo più meridionali; I connazionali erano perennemente impegnati in interminabili scambi di opinioni. Vi era la possibilità di giocare alle carte, bere un buon bicchiere di vino tipicamente italiano, fare nuove, talvolta, preziose conoscenze. Il giorno più desiderato e agognato? Ovvio: la domenica. Il mattino, dopo la santa messa officiata da sacerdoti sempre pronti ad aiutare chiunque ne avesse avuto bisogno, era dedicato agli aperitivi; il primo pomeriggio veniva consacrato all’ascolto delle partite di calcio, raccontate nei primi anni da Nicolò Carosio, successivamente da Ameri e Ciotti.
Mi rammento che eravamo tutti accalcati sotto una gracchiante radio, appollaiata sopra il mobile dei bicchieri. Una radio che, immancabilmente, nei momenti più vibranti delle gare si burlava di noi, affievolendo sadicamente la radiocronaca sino a farla sparire. Mani irritate la prendevano sbattacchiadola con rabbia e scoramento, speranzosi di ripescare dall’ignoto quella voce, seppur affievolita, almeno per udire il risultato finale. Altri tempi, in cui telefonare a casa era un lusso consentito a pochi e la televisione in lingua italiana ancora nel limbo dei sogni. In tarda serata, dopo i saluti, i connazionali ritornavano mestamente al loro solitario alloggio, pronti ad affrontare un’altra settimana di snervante fatica.
Fu all’incirca alla metà degli anni sessanta, che a un gruppo di giovani italiani, pur di uscire da quel ripetitivo rito settimanale, venne l’idea di creare un torneo calcistico che comprendeva la zona del triangolo Francoforte, Offenbach, Hanau. Si diede l’incarico a De Santis, impiegato presso la IBM e collaboratore alla pagina sportiva del Corriere d’Italia. In poco tempo ben dodici squadre italiane dettero vita ad una campionato dilettantistico, e furono inserite in una struttura creata dallo stesso De Santis, con tanto di iscrizione nella Federazione calcistica dell’Assia, denominata pomposamente Federazione Sport Italiani all’Estero (FSIE).
(continua…)